Venetian Snares
Rossz Csillag Alatt Szueletett
State per entrare in una valle di lacrime.
Non credete? Solita esagerazione? Festival dell'iperbole? Sagra della sparata grossa? Potrebbe non essere così semplice.
Il problema è quella sottile striscia venata di bianco e nero che divide il bello e il brutto: andare oltre entrambi farebbe al caso nostro.
In bilico su questo terroso segmento rettilineo, assistiamo alle metamorfosi dell'uomo-Dante.
Cronache luciferine di un "Parto sotto una cattiva stella" (come dice il titolo dell'album in ungherese). Metamorfosi raccontate per souvenir da tutti i luoghi germinali del terrore: dal proscenio di orchestre fantasma agli ingranaggi alienati di uno stordimento industriale.
Il Dio dei lego strumentali, il Kafka della musica, Venetian Snares il canadese.
Da scimmie ad Australopitechi, il passo è breve: giusto il tempo di superare un'intro minacciosa, affidata a un pianoforte bastardo ("Sikertelensèg") e veniamo sparati in uno spazio kubrickiano, a sbattere ossa su ossa, tra archi orchestrali e trapanature drum 'n' bass; la nostra quarta guerra mondiale ha inizio ("Szerencsétlen").
Ma è una guerra che può aspettare altri tre minuti e mezzo, che può ritardare la sua esplosione in favore di un'implosione sensuale che cattura anima e mente ("Öngyilkos Vasárnap"): come marionette, ci lasciamo guidare da una tremolante voce famminile da radio anni '40, un po' Portishead, un po' Royskopp (quelli della bellissima "Sparks"), un po' Amon Tobin, tra dilatazioni gocciolanti e sospensioni mistiche.
Viene ora steso un tappeto rosso sangue, tessuto tra filamenti tragici d'orchestra lirica e intrecci vibranti Black Tape for a Blue Girl e requiem funebri ("Felbomlasztott Mentokocsi"). La non-quiete si trasforma in tempesta: "Hajnal" e il suo incedere da pathos (e dramma) greco; l'epica non basta, serve Euripide: movimenti orchestrali degli archi risucchiati dal buco nero di un sax lamentoso. E poi il bello, e poi il brutto: raffiche delle drum machine e dei sintetizzatori, sostenute da un ritmo palpitante e acido. Come Aphex Twin, diversamente da Aphex Twin.
Si apre una nuova dimensione sonora: un mondo robotizzato in cui classicità teatrale e mitragliatrici breakcore da infarto elettronico trovano spazio e luogo e tempo.
La metempsicosi metamorfica continua tra beat frenetici e rapsodie ungheresi: le sensualità, la violenza di "Második Galamb" che cresce gonfiandosi sempre più fino a esasperare all'inverosimile, nel finale, i suoi ritmi da catena di montaggio.
Ormai Homo Habilis, Venetian Snares (Aaron Funk per gli amici), si appresta a raggiungere il suo prossimo step. La conquista di una posizione eretta avviene in "Szamàr Madàr", suprema sinestesia e sincronia di fervido lirismo e incessante elettricità autechretiana.
Ancora una volta, dominano il trio delle tre "v" d'archi (violini, viola, violoncelli) e la sostanza techno hardcore dei drum kit. Forse il merito di Venetian Snares è proprio questo: saper dosare gusto operistico e compiacimento drum 'n' bass con la giusta misura ed eleganza.
L'Homo Erectus si trasforma in un sol colpo in Homo di Neandertal nel vortice di suoni e colori di "Kétsarkú Mozgalom", dove convivono malinconia classica e strangolamenti techno, interrotti (un po' prima di metà brano) da una pausa intimista eretta dal violino e dalla dichiarazione d'infelicità di una giovane e triste voce femminile. La traccia riprende poi il suo corso fino alla fine, annegando questa volta in un lago di sola acidità aritmica e asimmetrica.
Dopo essere finalmente usciti vivi da questo Inferno primitivo, non possiamo far altro che prenderci qualche minuto di pausa, magari seduti comodamente da qualche parte, e mangiare cioccolato su cioccolato, tanto per addolcirci un po'. Nel mentre, però, partoriamo una riflessione: difficilmente riusciremo a sentire un altro album del genere, non a caso quasi per nulla conosciuto e recensito.
Venetian Snares è davvero Sapiens Sapiens...
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