V Video

R Recensione

6,5/10

Liam Betson

The Cover of Hunter

Se i Titus Andronicus, dopo l’ultimo non esaltante “Local Business” (2012), stanno attraversando un periodo di silenzio, alcuni vecchi membri della band ne hanno invece approfittato per fare una sortita solitaria. È il caso di Liam Betson, ex chitarrista del gruppo di Glen Rock, ora fuori con questo “The Cover of Hunter”, che dei Titus Andronicus e dei loro modelli rilancia la lezione, con una sua cifra personale.

Come Patrick Stickles (che suona la chitarra in “X”) Betson è verboso, canta male, ricorda a tratti il primo Conor Oberst post-adolescenziale nei panni di Bright Eyes, alterna nel disco fasi di inedia depressa a fasi di rabbia repressa, e, soprattutto, scrive testi colti, che mettono in luce una sensibilità e un’acutezza di sguardo non comuni tra gli autori d’oltreoceano. Testi che nascono da un’esperienza personale evidentemente sofferta, da ragazzo escluso o quanto meno disadattato nelle stelle e strisce peggiori.

E allora si possono leggere parole come: «I want to look at myself from another perspective, primarily through disembodiment and absorption into a wall» o «Worry is to the stomach as loneliness is to the entire body». Allora “Tie My Hands” può attaccare con il verso: «Completely incapable of making connections with other people», ritraendo il quadro di un nerd emarginato che solo fuggendo da casa, solo, riuscirebbe a non sentirsi più così solo, magari scoprendo un amore destinato a nascere già problematico e pieno di nascosti abissi («And when night comes to hold hands with someone, euphoria enters suddenly. But to have it and know it and love it and show it is like leaves and branches over a hole»). L’esplosione finale, dopo quattro minuti e mezzo di agonico duetto chitarra/voce scazzata, arriva come una condanna più che come una liberazione.

The Cover of Hunter” si salva, però, dall’essere lo sfogo di un giovane emo in conflitto con il mondo intero condito da tremolii conoroberstiani in ritardo di quindici anni sugli originali, e lo fa sostanzialmente grazie alla sua intensità. Musicalmente il disco spesso traballa, si inceppa su accordi ripetitivi suonati con una svogliatezza fin troppo mimetica della depressione che spesso evoca e mette in scena, ma sa anche librarsi e staccare hook incisivi da punk rock alla Mikal Cronin o Ty Segall (“Pocket Knife”, “The Primordial Will”, “Featureless Interior”), trovando persino la sponda di clarinetto e sassofono in “Made From Tin”.

E tutto il malessere ne esce più vero, cullato qua e là da illusioni di felicità («Oh, and when you turned your face the other way, it changed how I loved you, almost from lavender to blue or from beautiful to pure») e da un profondo bisogno di essere amati che alla fine suggella il disco («You want to be loved but say that you don’t») in qualcosa che sa di matura e cosciente disperazione, senza che la “febbre” del disco cali.

L’ascolto è impegnativo, ma non poteva essere altrimenti: i difetti dell’album sono anche il motivo del suo interesse, il suo sangue.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.