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7/10

Fluxus

Fluxus

Lavorando di ecdotica sulle difficoltà di interpretazione di una data opera e sulle possibilità di sua attribuzione a questo o a quell’autore, i filologi – prima ed oltre che cercare nel testo – sono soliti ricorrere ad una minuziosa serie di cause di carattere sovratestuale: quelle, insomma, che una volta venivano chiamate congiunture esterne e che, se decrittate correttamente in rapporto all’oggetto di studio, possono aiutare a comprenderne i risvolti più oscuri, le trame più insidiose. Il “maiale” dei Fluxus è la loro Newport, il frangente più difficile di tutta la loro carriera, la cesura secca e brutale (ma indispensabile) col loro passato. Se il Dylan di metà anni ’60, alla vigilia delle contestazioni studentesche, ebbe bisogno di scuotere e scandalizzare il suo vecchio pubblico iniettando elettricità negli amplificatori, la creatura di Franz Goria decise, al contrario, di affrontare le profonde ed irreversibili metamorfosi sociopolitiche del passaggio di millennio abbandonando la muta da big band hardcore, in favore di una veste notevolmente più astratta e trasognata. Fu una scelta difficile, controversa, pregna di conseguenze e, nel suo, storicistica: tant’è che giustificare finanche parzialmente l’esito stilistico terminale di questi Fluxus senza far riferimento a ciò che li circondava appare impresa disperata e, sostanzialmente, destinata a fallire. Grande dev’essere stato lo smarrimento dell’irriducibile fan di “Non Esistere” e “Pura Lana Vergine” davanti a questa salomonica copertina rosa: grande rischia di essere ancora il nostro, senza un adeguato giudizio complessivo. Da cui, per l’appunto, cominceremo a muovere, senza alcuna pretesa di esaustività.

Il trionfale e torrenziale tour di “Pura Lana Vergine” cade in un delicato momento di transizione per l’intera scena rock tricolore e ne segna, quasi idealmente, lo spartiacque. Mentre i Marlene Kuntz di “Ho Ucciso Paranoia” e gli Afterhours di “Non È Per Sempre” cominciano a volgersi verso altri lidi, il percorso artistico di altri nomi di punta giunge al suo naturale esaurimento (si pensi ai C.S.I. de “La terra, la guerra, una questione privata”, ai Wolfango di “Stagnola” o agli Uzeda di “Different Section Wires”) e una nuova scuola, assai più frammentata nelle direzioni e nelle intenzioni, comincia gradualmente ad imporsi (l’ampio diapason va dai Subsonica sanremesi agli One Dimensional Man “maturi”, dagli esordi di Verdena e Zu all’affermazione nazionalpopolare di Carmen Consoli). Il fuoco militante delle posse e dei centri sociali comincia a stemperarsi in un più generico disimpegno sociale, con il graduale eclissarsi del formato comunitario in favore della dimensione privata – e privatistica – di club e locali. Questo progressivo distacco dal rock “impegnato” si traduce in un superamento delle forme ad esso tradizionalmente associate e una tendenza alla sperimentazione di linguaggi meno sovrastrutturali. Tra i nomi direttamente associabili alla stagione precedente (e, quindi, tra i maggiormente esposti alla furia del cambiamento), i Fluxus devono poi fare i conti con l’ennesima e più importante ristrutturazione della line up, la cui fluidità in assetto live diviene instabilità in studio. In libera uscita è il chitarrista Simone Cinotto, la cui assenza viene supplita dallo storico bassista Luca Pastore e, solo sporadicamente, dall’apporto dell’amico Roberto “Tax” Farano: contemporanei sono i congedi di Massimiliano Bellarosa, occasionale terza chitarra di “Pura Lana Vergine”, e del secondo bassista Marcello Marcelli. Viene così a smantellarsi una delle caratteristiche fondanti e fondamentali della band di Torino, quel muro di suono per cui – già da “Vita In Un Pacifico Nuovo Mondo”, con il triangolo chitarristico Cresto-Cinotto-Novero – si era fatta (ri)conoscere ed apprezzare nell’underground dell’epoca. Risultato, and then they were three (il terzo, as usual, è il batterista Roberto Rabellino): fatto più unico che raro, mai accaduto prima.

Un po’ per l’influenza di questa fisiologica tensione al rinnovamento, un po’ per le limitazioni di formazione, i Fluxus scelgono di smettere temporaneamente di suonare dal vivo e si rinchiudono in studio per vedere cosa ne esce fuori. Il risultato di un anno di improvvisazione free form viene limato e perfezionato in poco più di due settimane di registrazioni: andrà a formare l’impalcatura sonora di “Fluxus”, su cui poi si innesteranno i testi di Goria e Pastore. Indicativi per arrivare al cuore della non semplice estetica musicale del disco sono, a giudizio di chi scrive, i due aggettivi poco sopra impiegati per descriverne l’apparenza esteriore: “astratta” e “trasognata”. Tanto concreta e viscerale, sebbene evocativa, era la poetica di un “Pura Lana Vergine”, quanto metaforica e simbolica risulta quella del “maiale”: un parlare per immagini la cui cifra di irrealtà si trasferisce alle musiche, in gran parte smussate da ogni asperità hardcore e rese diversamente alienanti. “I gesti non lasciano tracce / Su questo mondo stupefacente / I satelliti in orbite frenetiche girano / Senza trasmettere niente”, sussurra lontano e distaccato Goria nella prima take di “Una Splendida Giornata Di Luna”, una crepuscolare e liquida visione psichedelica in 5/4, tra Floyd e Mercury Rev, punteggiata dai discreti interventi jagajazzistiani della tromba cool di Roy Paci (traduzione in note delle Orme bazzoniane? Ipotesi suggestiva). È un verso che racchiude in sé il senso di un’intera, nuova visione del mondo, un elogio del disincanto e dell’alienazione (l’orrorifico, distopico “mondo di spaghetti di soia” dipinto nella desolante “Fensi”: vecchi abbandonati a sé stessi, crolli nervosi nell’ora di punta del traffico e “Qualcuno è stato sgozzato / Ma oramai gli sarà passato”). The world has turned and left me here: “Ma da dove viene tutta questa gente / Solo gente / Non più uomini o donne in un vuoto permanente” (“Radiografie”).

Si citava Roy Paci, de facto qui presente – come nel “Bromio” con cui gli Zu avevano esordito in grande stile qualche anno prima – alla stregua di quarto membro del gruppo (oltre alle svisate nella già citata “Radiografie”, un discreto lento dalle oblique melodie arpeggiate, menzione speciale va alla caratterizzazione folclorica dello scoppiettante hard boiled conclusivo di “Attraverso Managua”). Non è il solo ospite di prestigio: nel chiassoso zootropio elettronico di “Talidomide”, una litania martellante sulle “deformazioni” sociali che guarda al Lindo di metà anni ’90, Teho Teardo presta campionatore e chitarra acustica. Farano, infine, stampa la sua chitarra nei due episodi più roboanti del disco, la terrificante visione post-industriale di “Strana Forma Di Vita” (“Soffoco l’istinto di volare appeso a un filo / Mi ritrovo come un burattino / Che rompe i suoi fili e si muove da solo”) e la voluminosa, corganiana “Stella Dalle Mille Facce” (comunque non granché). Poi, i ringraziamenti dei credit, di per sé significativi: Gianni Maroccolo e Dario “John” Brondello. Se del primo sappiamo tutto, qualche nota esplicativa sul secondo (soggetto, qualche anno più tardi, di un bel cortometraggio di Luca Pastore) è necessaria. Eccentrico poeta torinese degli anni ’70, suo è lo splendido testo sinestetico di “Questa Specie”, nella sostanza un reading in salsa post-grunge perso tra C.S.I. e Massimo Volume: il punto in cui i due personaggi, apparentemente diversissimi, s’incontrano e cercano di instaurare un dialogo impossibile (“Chi mi guarda e sotto nutre il bianco, si avvicini”).

È un disco tanto sottovalutato quanto aspro, il “maiale”, molto più di quanto non potrebbero farlo supporre i toni: un decadente proscenio teatrale (da sentire il piano strimpellato nella doom wave di “Rosso Scuro” e gli abissi caveiani di “Non C’è Più Niente Di Me”) dove l’umanità atomizzata, ormai persino incapace di approcciare la dialettica dello scontro, si limita a pascolare allo sbando, nell’illusione della pura apparenza (“Noi non siamo tutti uguali / Siamo diversi ma siamo sempre persi a cercare noi stessi / Ma noi non ci siamo / A malapena esistiamo / Ci interpretiamo e ci guardiamo e moduliamo ogni riflesso / Che non è sempre lo stesso”: “Nessuno Si Accorge Di Niente”). È il canto di dolore di una band giunta al limite delle sue possibilità, un epinicio nero pece che più viene levigato e più disturba: certo, un disco di transizione (non ancora fluido è il dialogo con l’elettronica), ma di una transizione totale, definitiva. I sedici anni di iato che separano il “maiale” dal recente “Non Si Sa Dove Mettersi” testimoniano di questa radicalità.

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