Fluxus
Fluxus
Lavorando di ecdotica sulle difficoltà di interpretazione di una data opera e sulle possibilità di sua attribuzione a questo o a quellautore, i filologi prima ed oltre che cercare nel testo sono soliti ricorrere ad una minuziosa serie di cause di carattere sovratestuale: quelle, insomma, che una volta venivano chiamate congiunture esterne e che, se decrittate correttamente in rapporto alloggetto di studio, possono aiutare a comprenderne i risvolti più oscuri, le trame più insidiose. Il maiale dei Fluxus è la loro Newport, il frangente più difficile di tutta la loro carriera, la cesura secca e brutale (ma indispensabile) col loro passato. Se il Dylan di metà anni 60, alla vigilia delle contestazioni studentesche, ebbe bisogno di scuotere e scandalizzare il suo vecchio pubblico iniettando elettricità negli amplificatori, la creatura di Franz Goria decise, al contrario, di affrontare le profonde ed irreversibili metamorfosi sociopolitiche del passaggio di millennio abbandonando la muta da big band hardcore, in favore di una veste notevolmente più astratta e trasognata. Fu una scelta difficile, controversa, pregna di conseguenze e, nel suo, storicistica: tantè che giustificare finanche parzialmente lesito stilistico terminale di questi Fluxus senza far riferimento a ciò che li circondava appare impresa disperata e, sostanzialmente, destinata a fallire. Grande devessere stato lo smarrimento dellirriducibile fan di Non Esistere e Pura Lana Vergine davanti a questa salomonica copertina rosa: grande rischia di essere ancora il nostro, senza un adeguato giudizio complessivo. Da cui, per lappunto, cominceremo a muovere, senza alcuna pretesa di esaustività.
Il trionfale e torrenziale tour di Pura Lana Vergine cade in un delicato momento di transizione per lintera scena rock tricolore e ne segna, quasi idealmente, lo spartiacque. Mentre i Marlene Kuntz di Ho Ucciso Paranoia e gli Afterhours di Non È Per Sempre cominciano a volgersi verso altri lidi, il percorso artistico di altri nomi di punta giunge al suo naturale esaurimento (si pensi ai C.S.I. de La terra, la guerra, una questione privata, ai Wolfango di Stagnola o agli Uzeda di Different Section Wires) e una nuova scuola, assai più frammentata nelle direzioni e nelle intenzioni, comincia gradualmente ad imporsi (lampio diapason va dai Subsonica sanremesi agli One Dimensional Man maturi, dagli esordi di Verdena e Zu allaffermazione nazionalpopolare di Carmen Consoli). Il fuoco militante delle posse e dei centri sociali comincia a stemperarsi in un più generico disimpegno sociale, con il graduale eclissarsi del formato comunitario in favore della dimensione privata e privatistica di club e locali. Questo progressivo distacco dal rock impegnato si traduce in un superamento delle forme ad esso tradizionalmente associate e una tendenza alla sperimentazione di linguaggi meno sovrastrutturali. Tra i nomi direttamente associabili alla stagione precedente (e, quindi, tra i maggiormente esposti alla furia del cambiamento), i Fluxus devono poi fare i conti con lennesima e più importante ristrutturazione della line up, la cui fluidità in assetto live diviene instabilità in studio. In libera uscita è il chitarrista Simone Cinotto, la cui assenza viene supplita dallo storico bassista Luca Pastore e, solo sporadicamente, dallapporto dellamico Roberto Tax Farano: contemporanei sono i congedi di Massimiliano Bellarosa, occasionale terza chitarra di Pura Lana Vergine, e del secondo bassista Marcello Marcelli. Viene così a smantellarsi una delle caratteristiche fondanti e fondamentali della band di Torino, quel muro di suono per cui già da Vita In Un Pacifico Nuovo Mondo, con il triangolo chitarristico Cresto-Cinotto-Novero si era fatta (ri)conoscere ed apprezzare nellunderground dellepoca. Risultato, and then they were three (il terzo, as usual, è il batterista Roberto Rabellino): fatto più unico che raro, mai accaduto prima.
Un po per linfluenza di questa fisiologica tensione al rinnovamento, un po per le limitazioni di formazione, i Fluxus scelgono di smettere temporaneamente di suonare dal vivo e si rinchiudono in studio per vedere cosa ne esce fuori. Il risultato di un anno di improvvisazione free form viene limato e perfezionato in poco più di due settimane di registrazioni: andrà a formare limpalcatura sonora di Fluxus, su cui poi si innesteranno i testi di Goria e Pastore. Indicativi per arrivare al cuore della non semplice estetica musicale del disco sono, a giudizio di chi scrive, i due aggettivi poco sopra impiegati per descriverne lapparenza esteriore: astratta e trasognata. Tanto concreta e viscerale, sebbene evocativa, era la poetica di un Pura Lana Vergine, quanto metaforica e simbolica risulta quella del maiale: un parlare per immagini la cui cifra di irrealtà si trasferisce alle musiche, in gran parte smussate da ogni asperità hardcore e rese diversamente alienanti. I gesti non lasciano tracce / Su questo mondo stupefacente / I satelliti in orbite frenetiche girano / Senza trasmettere niente, sussurra lontano e distaccato Goria nella prima take di Una Splendida Giornata Di Luna, una crepuscolare e liquida visione psichedelica in 5/4, tra Floyd e Mercury Rev, punteggiata dai discreti interventi jagajazzistiani della tromba cool di Roy Paci (traduzione in note delle Orme bazzoniane? Ipotesi suggestiva). È un verso che racchiude in sé il senso di unintera, nuova visione del mondo, un elogio del disincanto e dellalienazione (lorrorifico, distopico mondo di spaghetti di soia dipinto nella desolante Fensi: vecchi abbandonati a sé stessi, crolli nervosi nellora di punta del traffico e Qualcuno è stato sgozzato / Ma oramai gli sarà passato). The world has turned and left me here: Ma da dove viene tutta questa gente / Solo gente / Non più uomini o donne in un vuoto permanente (Radiografie).
Si citava Roy Paci, de facto qui presente come nel Bromio con cui gli Zu avevano esordito in grande stile qualche anno prima alla stregua di quarto membro del gruppo (oltre alle svisate nella già citata Radiografie, un discreto lento dalle oblique melodie arpeggiate, menzione speciale va alla caratterizzazione folclorica dello scoppiettante hard boiled conclusivo di Attraverso Managua). Non è il solo ospite di prestigio: nel chiassoso zootropio elettronico di Talidomide, una litania martellante sulle deformazioni sociali che guarda al Lindo di metà anni 90, Teho Teardo presta campionatore e chitarra acustica. Farano, infine, stampa la sua chitarra nei due episodi più roboanti del disco, la terrificante visione post-industriale di Strana Forma Di Vita (Soffoco listinto di volare appeso a un filo / Mi ritrovo come un burattino / Che rompe i suoi fili e si muove da solo) e la voluminosa, corganiana Stella Dalle Mille Facce (comunque non granché). Poi, i ringraziamenti dei credit, di per sé significativi: Gianni Maroccolo e Dario John Brondello. Se del primo sappiamo tutto, qualche nota esplicativa sul secondo (soggetto, qualche anno più tardi, di un bel cortometraggio di Luca Pastore) è necessaria. Eccentrico poeta torinese degli anni 70, suo è lo splendido testo sinestetico di Questa Specie, nella sostanza un reading in salsa post-grunge perso tra C.S.I. e Massimo Volume: il punto in cui i due personaggi, apparentemente diversissimi, sincontrano e cercano di instaurare un dialogo impossibile (Chi mi guarda e sotto nutre il bianco, si avvicini).
È un disco tanto sottovalutato quanto aspro, il maiale, molto più di quanto non potrebbero farlo supporre i toni: un decadente proscenio teatrale (da sentire il piano strimpellato nella doom wave di Rosso Scuro e gli abissi caveiani di Non Cè Più Niente Di Me) dove lumanità atomizzata, ormai persino incapace di approcciare la dialettica dello scontro, si limita a pascolare allo sbando, nellillusione della pura apparenza (Noi non siamo tutti uguali / Siamo diversi ma siamo sempre persi a cercare noi stessi / Ma noi non ci siamo / A malapena esistiamo / Ci interpretiamo e ci guardiamo e moduliamo ogni riflesso / Che non è sempre lo stesso: Nessuno Si Accorge Di Niente). È il canto di dolore di una band giunta al limite delle sue possibilità, un epinicio nero pece che più viene levigato e più disturba: certo, un disco di transizione (non ancora fluido è il dialogo con lelettronica), ma di una transizione totale, definitiva. I sedici anni di iato che separano il maiale dal recente Non Si Sa Dove Mettersi testimoniano di questa radicalità.
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