Tool
Ænima
Capita a volte che un gruppo compia un salto di qualità, un balzo sorprendente in avanti, uno scatto impetuoso in salita che li allontana dal plotone dei mediocri. Questo è quanto è successo ai Tool a metà anni 90: da band di belle speranze nella giungla grunge-crossover ai tempi del loro ottimo debutto sulla lunga distanza Undertow, alla pubblicazione di Ænima, universalmente riconosciuto quale caposaldo imprescindibile del metal anni '90 e trampolino di lancio per laltro capolavoro Lateralus (con buona pace di quei beccamorti di Pitchforkmedia.com, i quali stroncarono proprio Lateralus con votazione di 1.9 su 10). Aenima vanta altresì un respiro ben più ampio, essendo uno degli ultimi lavori in ambito rock che siano stati in grado di fornire non solo una sintesi stilistica eccitante e innovativa, ma anche una visione del mondo, un immaginario di riferimento assolutamente peculiari e inscindibili dalla musica che lo ha creato e dal contesto storico.
I segreti della alchimia sonora di Ænima sono tanti, ma due spiccano in particolare. In primis, il recupero di sonorità free legate alle forme più heavy della psichedelia primi anni '70, legate a un certo dinamismo new wave e trasportate nella dimensione serrata e claustrofobica del metal anni '90, creando un puzzle sonoro in cui convergono superba scrittura, tecnica, precisione, visionarietà e nevrosi. Inoltre, il carattere straordinario del contributo di ciascun componente del gruppo. Il batterista Danny Carey, autentico mago dei piatti, col suo stile ipnotico e tribale è la forza propulsiva, coadiuvato dal bassista Justin Chancellor, entrato in formazione proprio alla vigilia di Ænima: responsabile di scansioni ritmiche sulfuree e cavernose. Il chitarrista Adam Jones è lanima creativa, autore di arabeschi hard rock divini, lussuriosi senza mai indulgere nella prolissità pur quando il minutaggio si fa eccessivo. Maynard Keenan è il valore aggiunto, sacerdote di arcane cerimonie perdute nel tempo giostrate da una voce potente ed evocativa come poche. I testi di Keenan sono poi particolarmente significativi, un gioco di maschere che confonde lAmerica, spesso influenzati dalla critica sociale e dalla filosofia del leggendario commediografo Bill Hicks, morto nel 1995, e al quale il disco è dedicato (Another dead hero, recita il booklet).
Forte di una durata imponente (settantasette minuti), Ænima si divide tra lunghe e contorte suite e intermezzi sonori perlopiù bizzarri: tra questi sono memorabili Message To Harry Manback, una pianistica mortuaria che sembrerebbe uscita dalla penna di Michael Nyman per la colonna sonora di Lezioni di Piano se non fosse per un testo sboccato e irriverente (con frasi in italiano!), oppure lepifania organistica di Intermission, o ancora la trance industrial-percussiva di Die Eier Von Satan.
Lalbum si apre con lincedere ruvido e geometrico di Stinkfist, in cui Adam Jones sciorina con ripetitività quasi robotica i suoi riff, fino a una progressione armonica alla Faith No More in cui entra in scena la maestosa voce di Keenan, da cui si irradiano sciamaniche declamazioni.
Eulogy è il primo apice: un trattato sulla religione, la sua mercificazione e i suoi abusi. Una sinfonia apocalittica di intensità emotiva insostenibile, in cui la follia e lalienazione scavano nella razionalità dellopera: la sezione ritmica è una fucina metallica implacabile, sviscerata con perizia chirurgica dentro un gioco a incastri complesso, condotto dalla sei corde di Jones, con Keenan perso tra febbri e visioni metafisiche al grido di Dont cry or feel too down / Not all martyrs see divinity / but at least you tried.
Questa compattezza di fondo, scandita su figure percussive quasi sempre in contro tempo, inizia a frantumarsi verso un magnetismo allucinogeno scardinante con due classici quali Forty Six And Two e Jimmy: dai riff magmatici e avvolgenti si passa a singulti sempre più oscuri, criptici e inquietanti, cui fanno da contraltare le sferragliate telluriche della corrosiva Hooker With A Penis.
E il meglio arriva con le ultime tre suite. Pushit è larchetipo delle cavalcate che illumineranno i successivi Lateralus e 10,000 Days, dieci minuti di una intensità glaciale che mettono in scena lo squallore della moderna esistenza umana, con turbolenze metalliche che galleggiano in acque tempestose e torbide, solcate da impetuosi venti gotici.
Lanthem lacerante Ænema disegna una parabola che annichilisce e risucchia nel nulla: uno tsunami che si abbatte sugli spasimi urbani di una Los Angeles ormai al collasso e da radere al suolo, con tanto di insulti a Ron Hubbard, a Scientology e alle case farmaceutiche produttrici di Prozac. Adam forgia un assolo di slide da brividi, mentre Maynard impersona un muezzin catastrofico che invoca la purificazione della città del sole nella fantomatica Arizona Bay, tra sussurri suadenti e devastanti urla, in un rituale ossianico che aggiorna il lascito sabbathiano.
Ma tutto passa in secondo piano di fronte allabisso esistenziale di Third Eye: tredici minuti di inarrivabile crossover attraversati da visioni profondamente legate allAmerica degli anni 90, ad affascinanti teorie esoteriche e al mondo più intimo dello stesso Keenan. Un labirinto in cui si svelano in cui la plasticità dei King Crimson e le allucinazioni ritmiche dei Faust vengono trapiantate in un solido scheletro cyborg-metal, in un gioco di rilasci delle tensioni accumulate che sfociano nel mantrico finale, tra funamboliche traiettorie di chitarra ed eccellenti esplosioni percussive. I Tool allo zenith del loro percorso artistico, tra meandri sonori e concettuali inarrivabili per quasi tutti i loro contemporanei.
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