FKA twigs
M3LL155X EP
- L'Ep
Quando si dice un'artista che non butta via nemmeno un secondo di musica. Il terzo Ep di twigs/Tahliah Barnett è semplicemente, brutalmente essenziale, al pari dei due che l'hanno preceduto e del lungometraggio LP1, che ne ha consacrato il talento tanto presso il pubblico hipster (nessuno è perfetto, ahimè) quanto entro l'ancora più folto corpus di ascoltatori a cui di queste prezzature da supermarket interessa assai relativamente. M3LL155X (da pronunciarsi Melissa) scava, in neanche diciannove minuti, un solco ancora più profondo e disturbante nelle carni già dilaniate del materiale percedente, proprio come Portishead procedeva verticalmente nell'estremizzazione dell'umore di Dummy. Prima di essere crocifisso per il paragone azzardato, fatemi dire che non cessa di stupirmi l'approssimazione con la quale si discute il legame che unisce idealmente/sonicamente il trip-hop che fu e questa nuova stagione avant-r&b, specie quando quest'ultima si materializza nei suoi tratti più estremi. Saranno mutate le tecnologie e i contesti, ma il nocciolo resta quello di partire da una manifestazione (allora era l'hip-hop, oggi il contemporary r&b) per poi ripensarne le dinamiche interne, sperimentare su texture e incastri vocali (vedasi la tecnologia digitale con cui manipolare il pitch dei vocals), virare verso atmosfere oscure quando non sepolcrali.
Aiutata stavolta da Boots (la mente dietro l'album experimental di Beyoncé, l'omonimo del 2013), twigs si conferma l'erede più meritevole di quel modus operandi nonché, assieme a James Blake, la vera anima anticonformista del nuovo corso (secondo alcuni già col fiato corto, ma staremo a vedere). Come sempre, il co-produttore di turno fa' sentire il proprio tocco solo se, e nei limiti in cui, questo s'incastoni senza forzature nella poetica della Barnett (persino Epworth suonava quasi irriconoscibile su Pendulum): ad esempio il beat asincrono e i bassi di Figure 8 complementano un disegno melodico minimal 100% twigs, dagli accenti sempre mutevoli (voce pulita, rap necromantico, una specie di growl), con tanto di sciabordate noise e apertura di synth a metà tra l'angelico e il degradato. L'enfasi sull'elemento glitch non è mai stata così marcata, sebbene il processo di decostruzione delle scenografie sonore di rado intacchi la struttura della canzone (lo stesso accadeva in LP1, checché ne dicano i maligni o, molto più semplicemente, coloro i quali l'hanno ascoltato in maniera sbrigativa). Quando ciò si manifesta, tipo nelle successive I'm Your Doll e In Time, è il middle eight a beccarsi la colpa, essendo della impalcatura il vero elemento destabilizzante.
I'm Your Doll reclama un posto d'onore tra i vertici di tutta la produzione di twigs: strofa perfetta nella quale è ricompreso, nei due ultimi versi, un pre-chorus di rara potenza, anticamera dell'esplosione industrial-rock che contraddistingue tutta la sezione finale. In Time, dal canto suo, resta altro gioiello di melodismo, dolcezza costretta in sbarre al silicio, accenni ragga perfettamente mimetizzati sottopelle. La già classica Glass & Patron (il pezzo più vecchio, risalente a Marzo), suona aliena in ogni senso, come se l'Aphex Twin dei tardi '90s estrapolasse pochi secondi da Vogue (Madonna), accelerasse appena i bpm, e su questi costruisse una mini-sinfonia di elettronica sperimentale dalle mille e passa sottigliezze. A chiudere, Mothercreep: enigmatica nelle liriche, sospesa tra il rantolio della base e il canto per una volta quasi speranzoso, uno sciame di basse e alte frequenze dove l'umanità - non si capisce quanto deviata - trova comunque il suo spazio.
Lei, twigs, il suo spazio se l'è conquistato coi fatti e continua a darcene prova, ampliando e mutando di volta in volta una linguaggio che, al netto degli imput esterni e dei fitti interscambi con la scena UK Bass, rimane solo suo. M3LL155X resta ad oggi il lavoro più estremo: magari non genre-defying come certe cose del recente passato, ma percorso da un senso di tragicità imminente (oserei dire industrial) come mai prima d'ora. Chi, come il sottoscritto, temeva un repentino avvicinamento al mainstream (e non perchè io detesti il mainstream in quanto tale, anzi...), può tirare un sospiro di sollievo.
- Il video
Altra cosa fica che senz'altro già conoscerete di M3LL155X è il video di sedici minuti che l'accompagna, realizzato dando sfogo alla passione per la cinepresa e per la performance art che da sempre anima twigs (il video è diretto da lei stessa). Vogliamo spenderci due parole? Spendiamole.
In apertura un'attempata Michèle Lamy è Tiresia ornato e vanitoso, inusuale rana pescatrice ad aprire la danza per una fecondazione sempre più bramata (Teach me how to lead with my middle finger / Boys growing boys growing girls into women / Teach me how to live life like I'm not a singer) ed infine raggiunta nel momento in cui egli/ella ingoia il bulbo luminoso penzolante dall'illicio (Something happened, just above me / I've a baby inside / But I won't give birth till you insert yourself inside of me). Questo primo quadro in sostanza è un prologo, tutto simbolismi e allegorie, al fattaccio del secondo: FKA è bambola gonfiabile stuprata dal bontempone di turno, che al termine ritroviamo sgonfiata/prosciugata. Il terzo pannello In Time ingloba, in uno scenario future come potevano esserli quelli scelti per i video delle ultime TLC, il pancione di twigs, una presenza maschile lontana quando non schifata dalla maternità (I won't be lonely / And you won't be silent / And we will be dancing / The way that we're wanting each other to be / If you could commit to / Making me happy / And stay with me in this / Stay with me in this), balletti a trio lynchianamente coerenti al contesto (I be feeling the same in the club, in the rave), e infine la rottura delle acque sotto forma di vernici dai toni vivaci che colano, mischiandosi in foot-paintings alla Pollock. Glass & Patron è il parto vero e proprio, una scia di ballerini avvolti in teli colorati, epitome di Melissa (così appunto twigs definisce la sua energia vitale) che guida l'artista e la giovane donna. Grossa pecca l'aver trascurato Mothercreep: tra i brani dell'Ep forse quello che più necessitava di integrazioni visuali e aiutini.
Inizialmente da me accolto con scetticismo (non per niente diversi video di FKA restano interlocutori, ad essere magnanimi), a una seconda visione il progetto ha mostrato più di un motivo di interesse. In primis le atmosfere a metà tra Matthew Barney e Jonathan Glazer (il cui Under The Skin si candida prepotentemente a film del decennio), e in seconda battuta le peculiarità di una storyline la quale, aldilà di evidenti richiami all'atto creativo ("an aggressive statement conceptualising the process of feeling pregnant with pain, birthing creativity and liberation") individua di nuovo nel corpo femminile il campo di battaglia privilegiato su cui instaurare un dibattito (forse ridondante, è possibile...), e lo fa' parlando un linguaggio non privo di fascino per il mitologico, per l'assurdo, per il surreale. Anche questo merita rispetto.
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