Julia Holter
Loud City Song
Era nellaria, dopo Tragedy (2011) e Ekstasis (2012), il discone di Julia Holter, ed eccolo qua. Se i lavori precedenti facevano intuire tutto il talento della ventottenne di Los Angeles, Loud City Song, registrato per la prima volta in studio, lo ha indirizzato nella direzione migliore, tra patina jazz, romanticismo fuori dal tempo e piccolo cabaret sperimentale. Il concept, modellato sul film Gigi, musical del 1958 di ambientazione parigina tratto da un racconto di Colette, dà alla Holter loccasione di ricreare unatmosfera compatta, senza però vincoli strutturali eccessivi. Al contrario, i pezzi sembrano fluttuare in una dimensione propria, fuori da ogni coordinata, in spazi liberissimi e lontani dal compiacimento rétro: Loud City Song è un disco che parla potentemente alla contemporaneità, di cui sembra rileggere dallalto, come in sospensione, le ansie, placandole.
«The city cant see my eyes», infatti, attacca World, elegia per sola voce e leggerissimi appunti di piano, archi e cori, facendo entrare nel disco come in punta di piedi, planando dalle altezze di un quinto piano. La voce della Holter qui è finissima ed elegante, ma la sua grandezza sta nella capacità di variare registri e attitudini, finendo spesso per scivolare verso una specie di spoken word teatrale che sembra andare fuori tono, dando come unancata ai pezzi più statici che così cominciano a turbinare: vedi Maxims I, che si spezza dal fumo di cimbali e tastiere, dopo un fraseggio di sussurri e uno stacco di violini e piano. O vedi Maxims II, che qualcosa prende (e stiamo a L.A.) dal classical pop in salsa vaudeville degli Sparks di Lil Beethoven.
Rispetto a Ekstasis la produzione di Cole Mardsen Greif-Neill, collaboratore di Ariel Pink, comporta una minore invasività dellelettronica: Loud City Song è il disco più classico della Holter, che pure, tra giochi e boicottaggi, non rinuncia alla forma canzone, con effetti variegatissimi: della città si dà linquietante grandezza, che bracca e insegue (Horns Surrounding Me), ma soprattutto la magia. La capacità, ad esempio, di contenere e innalzare lamore, in mezzo alla folla: Hello Stranger, cover di un pezzo di Barbara Lewis del 1963, tra gabbiani e violoncello, vola altissima, raddoppiando il minutaggio rispetto alloriginale e svaporandosi del tutto, in un crescendo orchestrale di intensità immensa, eppure leggerissima (non distante, per concetto, la cover di Chiamami adesso di Paolo Conte fatta a inizio anno).
Ecco, il punto è questo: se già con i dischi precedenti Julia Holter era riuscita a creare piccoli mondi a sé, qua si viene trasportati altrove con una potenza infallibile, ma quasi invisibile. Non si vede più, come si vedeva in Ekstasis, lartificio: davvero gli occhi della Holter ci restano nascosti, e nella città cominciamo a camminare da soli, sul ritmo rnb jazzato di In The Green Wild (Jenny Wilson?) o sulle note di Hes Running Through My Eyes (brividi), cullati poi nel pieno della notte con il sax di This Is A True Heart. La città è Parigi, è Los Angeles, e qualsiasi altra. E alla fine, su toni che quasi ricordano la Beth Gibbons solista (City Appearing), non è nemmeno più una città, ma qualcosa che viene dalle viscere.
Disco che fa prendere quota, a chi lo ascolta e a Julia Holter.
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