R Recensione

6/10

Or, The Whale

Light Poles And Pines

Moby Dick, Or, The Whale, titolava per intero il capolavoro di Melville. Sette freaks da San Francisco (ma texani nell’animo, o al massimo da New Orleans, come fingono nel brano d’apertura) lasciano da parte il nome dell’ingombrante balena e si tengono solo la metà più oscura del titolo, virgola compresa. Or, The Whale, o, delle radici, potremmo prolungare noi dilemmaticamente. Perché di roots a stelle e strisce, qui, si parla.

Riletture contemporanee tra country e americana ne esistono parecchie; per lo più nascoste, scarsamente pubblicizzate, ma abbondano. Neil Young, Creedence Clearwater Revival, Johnny Cash, The Band, Jayhawks e tanti altri tornano a incarnarsi in nuove fogge, annacquati con ammiccamenti indie a righe orizzontali, con deviazioni folk intimistiche (perché oggi piace così), con elementi pop, con pose picaresche, come da Decemberists prima maniera, sicché ascendenze marinare, insite nel moniker, si fondono a richiami propriamente terrosi, da America profonda, e, perché no, a esplicite concessioni da classifica. Tocca a noi, poi, salvare qualcosa dal mare magnum.

La nave (balena!) degli Or, The Whale, tutto sommato, regge. Il versante scelto dai sette componenti per il loro debutto è il più pop della gamma: un alt-country che può essere accostato, non solo nei pezzi a voce femminile, a quello dei The Essex Green, tra melodie leggere, pedal steel come se piovesse, banjo, fisarmoniche, cori, chitarre lanciate in assoli legnosi da urli rusticani («Guitar!», così in “Threads”, con clima da taverna), e, insomma, tutto l’armamentario del caso, senza troppe noie filologiche.

Gli esiti sono qua e là apprezzabili assai. L’apice arriva subito, in una “Call And Response” che all’inizio ricalca (spero, e immagino, involontariamente) “Pipe Dreams” dei Travis, per poi diventare una gustosa cavalcata un po’ Okkervil River trainata dalla voce raschiante di A.P. Robins. Innegabilmente à la Colin Meloy la piega che il suo timbro vocale prende in “Life And Death At Sea” (titolo, peraltro, che calzerebbe a molti pezzi della band di Portland), gradevole seppure nell’eccesso di lunghezza, ché cinque minuti sono troppi per questo pop.

E non sono male molti altri episodi vivaci (“Death Of Me”, “Gonna Have To”), qualche ballata che evita esasperate fiacchezze da post-sbornia (“Saint Bernard”, ad esempio, rispolvera belle melodie, tra cui quella dell’elementare riff di chitarra che detta il motivo principale), giacché la poetica dichiarata in “Crack A Smile” tra fenditure oniriche di fisarmonica («My favourite songs are all slow, quick ones are over too soon») è divertente ma non convince (“Prayer For The Road” è noiosa, poco da dire). Gradevole il finale corale di “Fight Song”, dopo episodi di citazionismo sixties spinto (“Ropes Don’t Break”) fino ad eccessi di neoclassicismo in salsa country-folk.

Consigliato agli americani nostalgici, ma non troppo duri e puri, perché tra tradizione e revisionismo l’equilibrio non è facile, e qui tutto sommato prevale una disimpegnata leggerezza più pop che country: Or, The Whale, o, come calare l’Obama delle spillette nel ranch dei Bush.

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