Liars
WIXIW
I Liars sono i top-player anni zero dell’evoluzionismo rock. Cercano da sempre un gesto, un gesto naturale in una realtà fittizia e alienante. Cosa fottutamente complicata se frequenti le avanguardiste serbe. Il gesto nella performance-art è tutto. Definisce il segno tangibile e temporale di un’idea forte, compiuta. Nelle lamette che tagliuzzavano Marina Abramovic e nella deriva distopica dei Liars si pianifica la stessa dolorosa consapevolezza, oltre al latente sadomasochismo della signora: l’arte è un vampiro che ti succhia il sangue, baby. Al di là della metafora più o meno telefonata il mercuriale combo di Angus Andrew mi ricorda quei centravanti che pascolano un’ora dentro l’area di rigore e poi fulminano lo stopper in doppio passo con bordata all’incrocio dei pali. “Sisterworld” aggiustava sovente la noia con mestiere e trucchetti autoreferenziali? Arriva l'illuminante highlight di una oppiacea “Drop Dead” a dosare il tiro, l’esecuzione. Relativismo Liars, ecco il punto. Coerenti nella loro sistematica incoerenza, pazzi mistici persi tra una discarica industriale e l’utopica isola di Aldous Huxley. Inafferrabili e mutevoli, rispetto al sottoscritto che usa insolenti neologismi sportivi, in un decennio e un pugno di dischi hanno sparpagliato, dissimulato, frantumato l’unicum tematico attraverso un reboot graduale del linguaggio wave e processi comunicativi ogni volta esemplari nel ricollocarne il proprio status alternative. Quale forma, quali inediti meccanismi muovono dunque la sesta criptica prova di studio “WIXIW”? In origine era il post post-punk che decostruiva con spigoli para-crossover Pop Group, Gang Of Four e P.I.L. La tesi, l’antitesi, il link periodico alla paranoia concettuale dei Pere Ubu, alle streghe noise di Thurston Moore, alla melodia grattugiata dei Gesù Cristo e Maria Incatenati. L’alba di un arcaico ambient tribale. Un ritorno pantagruelico al primitivismo come riconoscibile scala di valori e (ri)scoperta umana. Il fuoco, il codice binario, il ritmo metronomo sul tamburo che si ripete, si ripete, si ripete infinito, l’insanabile apatia urbana, lo sguardo automatico sullo schermo blu del notebook, la stasi notturna che infetta e contamina l’oscurità del giorno. Nel panopticon virtuale dei nostri giorni chi è il guardiano? Chi è il cacciatore, chi la preda? Angus & co. sono i soliti bugiardi naufraghi del post-modernismo che teorizzano ludiche fughe in avanti, verso un altrove alternativo sepolto nelle pieghe più recondite, meno labili del presente quotidiano. Scatole cinesi della psiche, contorti labirinti mentali in disfunzione.
“WIXIW” si legge “Wish You”, ma è un augurio vago e ambiguo, un sinistro e minaccioso presagio decodificato in un asettico simbolismo da Prince neogotici (il Black Album dei Liars?). Stavolta il trio newyorkese vira le sue glaciali liturgie pagane in un acquitrino electro-dark che fa decisamente i conti con i Radiohead della maturità, quelli inghiottiti dalle paludi sintetiche Warp, con l’Aphex Twin più cinematico e ambientale, con qualche pasticca acida presa dai Primal Scream ravecyberpunk (“Brats”), coadiuvato nella cabina di regia nientemeno che dall’ex uomo forte Mute Daniel Miller fra i monti della metropoli losangelina e uno studio di registrazione casalingo. Le nebulose digitali del prisma “WIXIW” spazzano via ogni indugio strumentale nel più puro sigillo elettronico a nome Liars, l’intelaiatura artificiale di beats e computer invece delle percussioni di Gross e lo spazio sonoro ibrido di synth e sequencer proiettano il falsetto-omelia di Andrew in un perenne viaggio notturno tra oblique strade perdute (il glitch nero e liquido “Octagon”), spirali di droni incappucciati attorno all’ologramma di Nico (il funereo mantra della traccia omonima, anello di congiunzione con i vecchi rituali Liars) e avatar replicanti del Thom Yorke solista migliori dell’originale (l’indietronica old-style di “His And Mine Sensations”). Un sogno-incubo che aggiorna il richiamo ancestrale di “Drum’s Not Dead” a coltri di tastiere e loop inquinanti, vedi l’efficace singolo simulacro dickiano “N.1 Against The Rush”, a un’indefinita identità multipla dalle brumose stratificazioni progacustiche (l’innodia art-folk che riveste “III Valley Prodigies”, l’epifanico outro ondeggiante di “Annual Moon Words”). L’impulso fallocratico della nenia industrial “Flood To Flood” e l’ipnosi This Heat di “A Ring On Every Finger” emergono dal buio come in un’improvvisa zoomata di Lynch su zone morte impermeabili alla logica, periferiche scale di Escher in slow-motion , piani sequenza immobili sul marciapiede a scrutare situazioni disperse e naif: un van Chevy del ’78 fermo al semaforo, un lupo che attraversa solitario la notte alla periferia di L.A., una puttana esistenzialista con l’eyeliner sfatto abbandonata lungo Mulholland Drive. Angus, Aaron Hempill e Julian Gross sfibrano atmosfere malconce e deviano qualsiasi sembianza di manierismo elettrico ancora stimolanti, ancora curiosi, ancora lucidi avventurieri nell’ennesima (definitiva?) trasfigurazione cronenberghiana. Transitorietà e costruzione in atto del prossimo habitat ideale. Furbi questi Liars, furbi e intrinsecamente appaganti.
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