Vermillion Sands
Vermillion Sands
Un giorno vago alla ricerca di band remote sul sito della Sacred Bones quando mi imbatto, sotto il remotissimo nome (ballardiano) Vermillion Sands, nelle parole «the second installment in the Sacred Bones 12-inch EP series comes from Treviso». Che per un trevigiano di periferia è luogo assai poco remoto: più o meno un chilometro e mezzo. Shock. Non è raro, purtroppo, che band nostrane siano più celebrate all’estero che in casa, ma stavolta la band ce l’avevo proprio in casa-casa, e ci resto onestamente un po’ di merda, soprattutto quando poi mi rendo conto che i quattro registrano all’Outside/Inside a Montebelluna, dove allora passavo ogni mattina bestemmiando contro il traffico e anestetizzandomi con gli Okkervil River.
Dopo Ep e singoli per etichette di culto e di rispetto sempiterno quali Sacred Bones e Fat Possum, i Vermillion Sands hanno pubblicato per la tedesca Alien Snatch il loro primo LP. Ascolto. E capisco che, in effetti, di italiano hanno ben poco. Sono quasi americani, i Vermillion Sands, come certi squarci di mobilifici dismessi e capannoni con lo sfondo delle montagne nella periferia di Montebelluna. Americani italiani, come ce ne sono molti. E non è un caso che il mio amico Luciano, che scrive poesie e vive a Revine, un po’ più a nord, sia innamorato di country più di certi yankee texani.
Il disco, in ogni caso, è una bomba. I Vermillion Sands, quelle radici mmmericane, dal blues al country al folk-punk, le scardinano di fuzz e strutture sconquassate, modernizzandole quanto basta per renderle squisite. Basti sentire il bluegrass fancazzista di “Peter Peter”, con un banjo sudista sbronzissimo, o l’anti-folk trascinante di “Star Light Star Bright” (che amino anche loro gli Andrew Jackson Jihad?). Energia ce n’è a iosa, perfettamente incanalata dalla produzione tanto sporca quanto maniacale a cura del bassista Nene (anche Movie Star Junkies), in cui molto contano la batteria di Caio (idem) e inserti ultra-distorti (cosa diventa la chitarra in “Warm Up”?). Vero punto di forza, poi, la voce assieme scazzata e impertinente di Anna Barattin, su testi a tratti naif a tratti mortuari, pieni di un'ossessione funebre autoctona, che non si deve tanto a Nick Cave, quanto al nonno veneto, che lo saluti “se vedemo doman” e ti risponde “speremo”.
Al di là dell’energia, poi, ci sono melodie killer, fatte vorticare in impasti garage-folk di organi e chitarre sgangherate, con effetti irresistibili (“In The Wood”, “Warm Up”) e picchi nell’hillibilly drogato di “Wake Me When I Die” e nei ¾ noir di “Monsoon Blues”. Se poi da sotto i tavoli in legno spunta pure l’Inghilterra jangle pop (“The Last Day”: Talulah Gosh e Shop Assistants!) c’è da rimanere storditi davvero, tanto più con il finale narcotico di “Ghost Song”. Forse, addirittura, come si dice da 'ste parti, 'massa'.
Quello dei Vermillion Sands è un revival che si gioca su campi meno ruvidi rispetto alla recente ripresa garage-rock a stelle e strisce (Thee Oh Sees, coi quali hanno suonato da poco, The Strange Boys, The Fresh & Onlys, ecc.), più rustici, ma non meno intriganti: anzi, va a finire che questa America filtrata dall’Italia, balorda per natura più che per scelta, è più interessante di quella vera.
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