Fake Names
Fake Names
Di solito non amo trasformare in una recensione la lista della spesa delle pregresse esperienze artistiche dei membri di questo o quellaltro gruppo, ma credo che, per questa volta, loccasione sia particolarmente propizia. Mettete assieme due istituzioni chitarristiche del punk melodico americano come Brian Baker (Bad Religion, ex Minor Threat) e Michael Hampton (Embrace, One Last Wish), Johnny Temple dei Girls Against Boys al basso e un affidabile turnista tuttofare come Matt Schulz dietro le pelli: lasciate poi che ad indossare i consueti panni del santone pop anticapitalista sia sua maestà Dennis Lyxzén. La nascita e lesistenza dei Fake Names sembrano tagliate precisamente per uno ed un solo scopo: mettere a ferro e a fuoco i palchi dei festival estivi di mezzEuropa (giusto per limitarsi al minimo indispensabile). Stanti le presenti circostanze, tuttavia, si capisce bene come si tratti di un obiettivo del tutto irraggiungibile. Ed allora, che cosa ci rimane di tutta questa potenza di fuoco dispiegata anzitempo?
Rimane, anzitutto, un discreto disco di genere, predicibilissimo in ogni sua componente ma senza la minima ambizione da accademia e, pertanto, limpido nelle intenzioni e schietto nei risultati. Chi non si trovasse in sintonia con i curricula dei musicisti in azione può anche smettere di prestare attenzione: Fake Names è lesatta somma delle parti che ci si aspetterebbe su carta. La buona notizia è che, pur senza particolari picchi, in questa mezzora scarsa vè più di una canzone allaltezza della situazione: chi scrive vota anzitutto Being Them, bagnata da un ritornello corale semplice ma efficacissimo, il giro di arpeggi chiaroscurali della wave di Darkest Days e quel non-so-che emocore old school su cui si infrangono gli elementari ricami chitarristici di Weight. Si tratta, forse non casualmente, degli unici brani (assieme al meno efficace power punk di This Is Nothing) che si concedono il lusso di superare la soglia psicologica dei tre minuti, elaborando più nel dettaglio il canovaccio di base e svelando le capacità non comuni della band di scrivere degli anthem immediati, ma non per questo banali. Poi, intendiamoci: non siamo più nel 1985, i Fake Names non sono i Refused di venticinque anni fa (ma, grazie al cielo, neanche quelli di oggi), la produzione Epitaph non è sempre sul pezzo (fin troppo compressi i tamburi su due momenti chiave della tracklist, il vagamente garage dapertura All For Sale e la synth-oriented Heavy Feather) e lurlo sfoderato da Lyxzén sulla cover, almeno a sentire il refrain quasi bubblegum di Brick e il contagioso indie rock pane e salame di First Everlasting, è più metaforico che reale. Ma chi potrebbe davvero avere il coraggio di lamentarsi?
Noi certamente no.
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