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R Recensione

6,5/10

Fake Names

Fake Names

Di solito non amo trasformare in una recensione la lista della spesa delle pregresse esperienze artistiche dei membri di questo o quell’altro gruppo, ma credo che, per questa volta, l’occasione sia particolarmente propizia. Mettete assieme due istituzioni chitarristiche del punk melodico americano come Brian Baker (Bad Religion, ex Minor Threat) e Michael Hampton (Embrace, One Last Wish), Johnny Temple dei Girls Against Boys al basso e un affidabile turnista tuttofare come Matt Schulz dietro le pelli: lasciate poi che ad indossare i consueti panni del santone pop anticapitalista sia sua maestà Dennis Lyxzén. La nascita e l’esistenza dei Fake Names sembrano tagliate precisamente per uno ed un solo scopo: mettere a ferro e a fuoco i palchi dei festival estivi di mezz’Europa (giusto per limitarsi al minimo indispensabile). Stanti le presenti circostanze, tuttavia, si capisce bene come si tratti di un obiettivo del tutto irraggiungibile. Ed allora, che cosa ci rimane di tutta questa potenza di fuoco dispiegata anzitempo?

Rimane, anzitutto, un discreto disco di genere, predicibilissimo in ogni sua componente ma senza la minima ambizione da accademia e, pertanto, limpido nelle intenzioni e schietto nei risultati. Chi non si trovasse in sintonia con i curricula dei musicisti in azione può anche smettere di prestare attenzione: Fake Names è l’esatta somma delle parti che ci si aspetterebbe su carta. La buona notizia è che, pur senza particolari picchi, in questa mezz’ora scarsa v’è più di una canzone all’altezza della situazione: chi scrive vota anzitutto “Being Them”, bagnata da un ritornello corale semplice ma efficacissimo, il giro di arpeggi chiaroscurali della wave di “Darkest Days” e quel non-so-che emocore old school su cui si infrangono gli elementari ricami chitarristici di “Weight”. Si tratta, forse non casualmente, degli unici brani (assieme al meno efficace power punk di “This Is Nothing”) che si concedono il lusso di superare la soglia psicologica dei tre minuti, elaborando più nel dettaglio il canovaccio di base e svelando le capacità non comuni della band di scrivere degli anthem immediati, ma non per questo banali. Poi, intendiamoci: non siamo più nel 1985, i Fake Names non sono i Refused di venticinque anni fa (ma, grazie al cielo, neanche quelli di oggi), la produzione Epitaph non è sempre sul pezzo (fin troppo compressi i tamburi su due momenti chiave della tracklist, il vagamente garage d’apertura “All For Sale” e la synth-orientedHeavy Feather”) e l’urlo sfoderato da Lyxzén sulla cover, almeno a sentire il refrain quasi bubblegum di “Brick” e il contagioso indie rock pane e salame di “First Everlasting”, è più metaforico che reale. Ma chi potrebbe davvero avere il coraggio di lamentarsi?

Noi certamente no.

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