Wild Beasts
Smother
Nel 2008 fu “Limbo, Panto” il ‘verbo’ dei Wild Beasts: un palcoscenico cabarettistico dove Sparks, Roxy Music, Peter Gabriel, Talking Heads, The Associates, Smiths ed Elbow, in preda a conflitti di inibizione-disinibizione, si mescolavano in una ideale rappresentazione art pop. Dimostratosi uno degli esordi di lusso degli ultimi anni in terra albionica, il disco si scostava dalla media delle produzioni pop, grazie alla sua energia debordante: il principio di piacere tentava continuamente di prendere il dominio – in forme spesso bizzarre e tremendamente carnali – su quello di realtà, e tutto veniva amplificato da un edonismo fuori controllo, tra una fisica poliritmia del sound e una convergenza di sensibilità art e glam, promossa da un’estetica fatta di torsioni tribali (Chris Talbot, alle pelli), modulazioni vocali depravate e timbriche altamente sceniche, ora in un perenne ed eccitato falsetto (Thorpe Hayden, voce e chitarra), ora in un avvolgente baritono (Tom Fleming, voce e basso). Teatralità libertina da bestie selvagge, intuizioni sonore a go-go, sì, ma poca compattezza d’insieme.
Ed è proprio in questo senso che nel loro secondo full-length, “Two Dancers”, i quattro hanno apportato una mole significativa di correzioni, passando principalmente per un lavoro di sottrazione e limatura, che nel nuovo “Smother” trova un ulteriore raffinamento. Si ripete, così, la personalissima formula magica dei Wild Beasts: un art-pop permeato di attitudine dreamy, dall’estetica glamour smussata di ogni virtuosismo strumentale, scarna ed essenziale. Ponendo il loro sound in una posizione meno enfatica e più minimale, hanno reso umana una certa asetticità elettronica («We’d been listening to a lot of electronic music, and we’ve tried to think about the structures, sounds and restraint of that approach, while still keeping the human grime intact» sosteneva Fleming, in un’intervista a Cavacool.com), mentre la posa studiatissima del suono, da laboratorio, viene scomposta dai testi, zeppi di un’irruenza fisica straripante e di un’incontrollabile spinta sessuale («Sex is eternally fascinating. It’s irresistible. It’s a major driving force for art or… anything», da un’intervista a Flavorwide), da (anti)romanticismo postmoderno. Un gioco di contrasti che trova qui l’armonia definitiva, con un taglio di tutti gli estremi.
La rarefazione di “Smother” nasce dalla necessità da parte della band di rilassarsi dopo la frenesia del tour post-“Two Dancers”. Un ritorno alla loro Kendal, nel distretto dei laghi. E un tuffo nel bianco. Il disco è un’oasi rasserenante, che rovescia completamente la poetica di “Limbo, Panto”: le linee vengono ammorbidite, le eccentricità eliminate, misurata la chitarra, che entra solo per eleganti arpeggi o pennate con l’ovatta. Le percussioni, guidate sempre dai tom, si appoggiano ai brani quasi sfiorandoli, tipo pezzi di legno sull’acqua: ne escono loop levigati, piccole onde tribali che ipnotizzano, anche per una pulizia sonora di un’eleganza sempre più classica (co-produce ancora Richard Formby) e che permette di ‘sentire’ e ‘vedere’ tutto.
Porno, sempre, i Wild Beasts. Ritorna, allora, la dicotomia tra self-control, disciplina e nevrosi sottopelle, piccoli tic, che creano stati di edonismo altamente controllati – quasi riuscissero ad emergere solo a sbuffi: new-wave compressa. Spettacolo i brani più mossi: “Bed of Nails” prende un tiro disco languidissimo (Hercules & Love Affair in deboscia?) che sulle melodie in falsetto di Thorpe lancia verso l’instant-classic assoluto. Il dinamismo amaro di “Reach a Bit Further” tocca vette celestiali sulle ali ampie di arpeggi e ipertoni oscillanti. Si gioca meno, rispetto ai dischi precedenti, sull’alternanza vocale, ma dove lo si fa ci si rende conto che questi hanno in line-up due tra le più peculiari voci pop in circolazione, in grado di completarsi in modo perfetto (“Lion’s Share”).
Tanto che, mentre “Two Dancers” aveva l’eleganza torva della fine del mondo, “Smother” sa di armonia superiore, quasi orientale per misura e tatto. Pacificata. Gli inserti pianistici redimono (“Lion’s Share”, “Invisible”: dove gli ultimi Elbow hanno toppato), quelli elettronici lasciano un’impronta sfiorando soltanto gli equilibri sonori (“Plaything”, “Albatross”: da haiku, e James Blake approva), mentre solo l’amore, violento, lì, fino allo strazio, resiste come polo della brutalità e delle rudezza. Emergono, quasi a sorpresa, sensi di colpa radicati in un intimo disagio («You're my plaything / yeah I'm wondering / how cruel I've been», da “Plaything”; «I was crude / I was nude / I was rude / I was not in the mood» da “Reach a Bit Further”), riversato in una passione che annichilisce («Your lips to my lips / I cease to exist», da “Invisible”; «I was angry and brash as a bull / you were devastatingly beautiful» da “Reach a Bit Further”). Amore, insomma, come devastazione, anche nel piacere («I would lie anywhere with you / any old bed of nails would do»), fino al sadomaso («Be blatant as a bailiff / I want my lips to blister when we kiss»), piuttosto che come gioco dandy. Con un dolore – e pure un livore – prima sconosciuti («I blame you for all of the things I’ve been through», da “Albatross”). Urgenza sublimata, sempre più. Giochi di compensazione tra selvaggio e immacolato che fanno la poesia di questa band.
E sono stati di serena rassegnazione che affiorano, bellissimi, nei pezzi migliori. In “Loop the Loop” gli incantevoli arpeggi acustici e le stilizzazioni del piano sono sorretti da uno sfondo ritmico incalzante – ma da tepore immediato – e gli arabeschi di chitarra (eseguiti da Ben Little) sfiorano la grazia. L’involucro mantra di “Burning”, tutto vibrazioni che sfuggono, sfoggia un assetto minimal ambient in cui il pop si cala senza capire come, ma da dio: stati meditativi da non ritorno, e “Treefingers” può già capitolare. “Deeper”, dal drumming ancestrale (a là Peter Gabriel di “Intruder”) sedato e messo in una casa degli specchi, gioca su contrappunti di piano, modulazioni baritonali, e di nuovo ambient trattato. “End Come Too Soon”, poi, finisce con una specie di condensazione onirica dei vari tratti presenti in “Smother”, in gloria, mettendo assieme i Talk Talk svaporati ed Antony.
Difficile pensare, ai tempi di “Limbo, Panto”, che il capolavoro dei quattro di Kendal sarebbe stato un disco di raccoglimento. Difficile pensare a questa crescita. E se è vero che la fine arriva troppo presto, come cantano, è bello pensare che per i Wild Beasts, pure già così compiuti (e così 'importanti'), questo sia solo l’inizio.
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