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7/10

Dave Douglas

Time Travel

Il jazz contemporeano ha abbattuto gli steccati, ci ha costretto a rivedere il concetto di genere.

Un tempo era tutto più semplice, chiaro, definito.

Ciascuno fra noi musicofili incalliti è in grado di stilare – in qualsiasi momento - la classifica dei dischi rock preferiti degli anni '60 e '70, e di snocciolare in separata sede il listone delle opere jazz. Un golfo profondo separava le due grandi anime della musica popolare, e tutti ne erano consapevoli (la fusion era un chiaro ibrido, senza dubbio, un banchetto ove celebrare la pace fra i due schieramenti; ma il bello è venuto dopo).

Oggi non è più così: Matana Roberts ha pubblicato il mio disco del 2011, e certamente siamo di fronte un'artista dalle origini jazz, ma i diversi linguaggi che convivono nella sua musica si sovrappongono e si intrecciano al punto tale che parlare ancora di jazz risulta proibitivo. Oggi musica "colta" e musica popolare viaggiano a braccetto, tracciare linee di demarcazione nette è impossibile, stabilire dove inizia l'una e dove finisce l'altra è impresa velleitaria.

Ecco, il trombettista Dave Douglas, giunto alla soglia della cinquantina, è fra le muse del jazz multietnico e onnivoro.

La sua tromba mostra legami di sangue con il nobile lirismo di Miles Davis, guarda anche al raziocinio compositivo di Wayne Shorter, ma assorbe stimoli e stilemi anche profondamente diversi. Il frequente ricorso a tempi dispari e composti, per dire, richiama le danze dell'europa dell'est, dove scansioni simili dominano la struttura delle danze popolari. Anche il timbro vigoroso e asciutto della sua tromba evoca a tratti le bande di ottoni dei balcani, più che le big band della musica afro-americana. Vari temi rimaneggiati hanno le provenienze più inusuali.

Nel 2013, però, Douglas ritorna a casa. Riscopre un insospettabile tradizionalismo, un'anima legata ai grandi classici. Il jazz di matrice puramente nordamericana ritorna infatti prepotentemente a dominare ed a modellare la creatività del trombettista: l'eclettismo si fa da parte, per una volta. Quasi che uno dei suoi padri volesse per un momento prendere le distanze dai tanti figli e figliastri.

Dave Douglas si affianca al suo – oramai stabile - quintetto, dove primeggia il sassofono di Jon Irabagon, e si butta alla riscoperta dei complessi meccanismi armonici e ritmici del bop e del post-bop. Esperimenti radicali, disturbati da frammenti di elettronica visionaria, come l'impressionante "Sanctuary", sono lontani anni luce: qui la ricerca si concentra sulla scrittura e sull'inteplay fra i musicisti in sede esecutiva. Si riscopre le ardite invenzioni ritmiche e le frasi sconnesse della musica di Charlie Parker e di ciò che ne scaturirà, con una sorta di inchino, che mostra la meritata riverenza nei confronti dei grandi del passato.

Douglas è meno coraggioso del solito? Forse no, perché addentrarsi in territori già ampiamente decodificati e rivangati in tutte le salse è meno semplice del previsto. Richiede, per prima cosa, una buona vena compositiva, e la capacità di valorizzare al meglio i compagni mentre si improvvisa; Dave, da questo punto di vista, non delude. La sessione ritmica compone strutture mobili e mediamente regolari dove il fitto dialogo fra le due voci principali (i due strumenti a fiato) ritrova compattezza, armonia.

Douglas è un attento osservatore e un appassionato ricercatore, capace di scovare i segreti nascosti dietro i complessi meccanismi del bop. Al contrario di altri topi di laboratorio, però, il trombettista possiede quel non so che: non seziona e analizza, non solo almeno. La sua musica ha sempre posseduto una discreta energia, una notevole capacità di rapire l'ascoltatore, oltre che di affascinarlo: Douglas è un musicista emozionante (ricorro a un termine abusatissimo), e anche le strutture rigogliose e ben organizzate del "Viaggio nel tempo" non mancano di ricordarlo al folto pubblico di ammiratori.

La musica ha conservato un discreto dinamismo, e questo lavoro vuole più che altro ricordarci da dove siamo partiti: l'autore ha ramificato il jazz in mille direzioni diverse, è fra i padri del multiculturalismo contemporaneo, ma le sue radici albergano sempre nella Grande Mela. Ogni tanto, allora, è bello ripassare in zona e farsi una bevuta con gli amici di un tempo.

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