A Nicolas Jaar @ Teatro della Concordia, Torino (25/11/2016)

Nicolas Jaar @ Teatro della Concordia, Torino (25/11/2016)

Teatro della Concordia, e storco il naso. Ché Nicolino non si può mica sorseggiare aggrinfiati a un seggiolino: va tracannato ritti, una bottiglia dopo l’altra, in visibilio. Ma non mi istruisco sul posto, e faccio male: non è strettamente a Torino, infatti, bensì a Venaria, che dalla Mole dista almeno otto chilometri. Così parte la consueta odissea che precede i concerti, inanellando strade ignote, facce ignote, gole ignote, verso la meta.

Non mi istruisco sul posto, dicevo: il Teatro della Concordia si scopre, per fortuna, dotato di zero poltroncine, non i palchi, non i loggioni; è un enorme quadrato che m’accoglie ricolmo di luci porpora, naturalmente soffuse, come in un film di Gaspar Noé. Un enorme quadrato nel quale si tracciano semirette, quindi in piedi, ancheggiando, scrollando le spalle, il collo come una molla, ad occhi chiusi, prima di spalancarli, abbacinati, perché travolti dai bagliori, senza scampo.

A parte l’inizio soft, dunque, dove spicca la bella Killing Time e dove Nicolino imbocca un sassofono, – e in quel sassofono soffia, sferraglia, fischia, fa come il verso delle marmotte, butta tutto se stesso, senza pudore –, a parte questo inizio, insomma morbido e propedeutico, poi parte il delirio, ancheggiando, scrollando le spalle, il collo come una molla, diventando il suono molto clubby, come era sacrosanto che fosse.

E spartiacque, per questo, è la cumbia di No, è Nicolino che si esprime in spagnolo, come sempre un po’ chino sui suoi aggeggi, sulle tastiere, pure lui ondeggia, come noi, si respira cileno, la voce travestita, No hay que ver el futuro, para saber lo que va a pasar. E poi i bassi. I bassi, santiddio. Per tutto il concerto sono rintocchi potentissimi, devastanti, da far vibrare forte l’intero teatro senza seggiolini, palchi, loggioni. I bassi che scaldano la folla, la esaltano, la trasfigurano, nel rimbombo. Sembra vada a prenderli così in fondo, i bassi, Nicolino, da piluccarli dalle viscere della terra, dalla crosta, dal mantello, dal nucleo, là dove la lava scorre.

Lui, Nicolino, perennemente una sagoma nera, per tutti i centodieci minuti, talvolta subissato da chiarori come nuvole, come nuvole che leste si muovono nello spazio, nello spazio pullulano e si contorcono, e il palco fumiga, a dare una maggiore sensazione di mistico. Uno dei picchi, dei tanti picchi, si tocca con Swim: è la classica situazione in cui, di colpo, tutto si obnubila, tutto è incomprensibile, quando il pezzo esplode. Qui l’onda di una luce cremisi ci investe, ci soffoca, ci ribalta; il delirio rasenta livelli primordiali.

Con The Governor accade qualcosa di simile. Ma non ho più le parole (e invero non le ha neanche Jaar, che ringrazierà appena in due occasioni, senza discettare oltre). Nicolino esce e rientra, accaldato, acclamato. Al secondo rientro una voce emerge dal pubblico e gli grida “Lavora!”, strappando i nostri sorrisi. E Nicolino, come se l’avesse sentito e capito, si china di nuovo sui suoi aggeggi, sulle tastiere, sul suo telaio, e incomincia ancora a filare, due ultimi minuti, con una specie di respiro blues, senza canto, che lascia interdetti.

Nicolas Jaar – che si pronuncia Giàar – è grande perché la sua musica non necessita di filtri, interpretazioni, esegesi. È musica che punge direttamente l’epidermide, che direttamente soffia sulle carni, sulle ciglia, sulle pleure. Pertanto, questa recensione, questa qui sopra che ora avete letto, è la più stolida e fumosa delle recensioni. Ché la musica della Giara (lo chiamerò così, d’ora in poi, Giàar, una volta Nicolino, giara di terracotta, panciuta, satura di liquidi), proprio come la povertà secondo le idee di una vecchia suora, non si dice. Si vive.

 

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