V Video

R Recensione

7/10

Colin Stetson

Sorrow

Colin Stetson per quanto mi riguarda è un guru della musica contemporanea: le sonorità siderali del suo sassofono contrabbasso, e sue Storie Nuove, il suo oltranzismo ideologico e fonico, lo collocano una spanna sopra una buona parte della concorrenza.

Tanto che non mi sono tirato indietro quando si è trattato di evocare Anthony Braxton o lavori epocali come “Rock Bottom”.

Insomma, da lui mi aspetto sempre il quid pluris.

Ecco perché “Sorrow” mi lascia un attimo più freddo: è il classico lavoro in cui l'ambizione supera la resa effettiva. Detto altrimenti: l'idea è bellissima, ai limiti del fantastico. La resa è valida, sempre ispirata, ma forse un filo meno entusiasmante del previsto. Poco male: qui abbiamo comunque sotto gli occhi un tale concentrato di idee che il risultato è – e non può che essere – lodevole.

Veniamo al dunque.

Sorrow” è un omaggio alla terza sinfonia di Gorecki (“Symphony of Sorrowful Songs”), compositore polacco scomparso nel 2010, e mette in mostra i legami di sangue fra Colin Stetson e molta avanguardia colta del '900. In effetti, nel suo caso, parlare di jazz, o comunque solo di jazz, è sempre stato fuori luogo.

Stetson è un musicista che guarda soprattutto al radicalismo dei minimalisti e alle ricerche sul suono dei visionari del '900 (Steve Reich, ad esempio: il suo spirito aleggia fra i solchi dell'ultimo lavoro pubblicato nel 2015). In tal senso, l'accostamento al jazz risulta più che altro riflesso: il canadese sembra un musicista jazz perché segue le orme dei jazzisti che hanno portato nel contesto afro-americano il concettualismo senza compromessi della musica colta europea.

Sorrow” si divide in tre lunghi momenti. E' un dichiarato omaggio alla corposità espressiva di un'opera che, per ammissione di Stetson, gli ha rovesciato l'esistenza.

La notazione e la scrittura delle singole parti strumentali, rispetto all'originale, muta di poco: in termini compositivi, melodici e armonici, si tratta di un puro rifacimento.

Il lavoro di Stetson è tuttavia centrale nella riscrittura della timbrica, dell'impatto sonoro. Colin conferma che la ricerca, nella musica contemporanea, investe sempre più le potenzialità del suono in quanto tale. Colin si mette sul lato oscuro della luna, e cava dalla partitura idee e spunti nuovi: ma il suo lavoro riguarda più che altro ciò che la partitra non dice, svela le sue potenzialità in modo originale. Non si guarda tanto alla scrittura, ma al colore tessiturale delle trame.

La tavolozza sonora diventa più ricca, ma l'impalcatura che la contiene, di fatto, non viene modificata, se non in misura marginale.

Per mettere a fuoco il progetto, Stetson sostituisce e amplia l'organico, alterando il DNA della sinfonia, e aggiungendo qua e là parti di sua ideazione, che si sovrappongono a quelle base, senza tuttavia modificarle (Stetson ricorre a una sorta di scrittura a pannelli).

Il suo modus operandi mi ha ricordato quello di Gil Evans, il direttore e compositore d'orchestra che – in collaborazione con Miles Davis – ha dato vita ad alcune fra le riscritture più stupefacenti del '900, senza alterare nulla (o quasi) in termini di armonia e di melodia, ma lavorando quasi esclusivamente sulla timbrica, sulla fraseologia, sull'impasto sonoro considerato in termini quasi materici. Chi non conosce, provi lavori come “Sketches of Spain” (rilettura immaginifica del Concierto de Aranjuez, dove si ascolta una fra le performance più abissali e toccati del trombettista) o “Porgy & Bess” (di poco inferiore all'altro capolavoro, qui si va dalle parti di Gershwin).

Violini e violoncelli rimangono la voce strumentale principale (grazie ancora una volta a Sarah Neufeld). Ma Colin arricchisce l'impasto con sintetizzatori, chitarra elettrica, legni (vari sassofoni).

Il primo movimento decolla definitivamente nei volteggi del mezzosoprano Margaret Stetson (la sorella), che altera il registro rispetto all'originale (dove la voce è quella di un soprano). Il crescendo finale ha un impatto quasi violento (qualcuno, addirittura, ha evocato il black metal).

Il secondo movimento prosegue sulla linea del minimalismo serial (Boulez, Stockhausen & C: tutta gente venerata dal polacco, così come da Stetson). Dopo una breve intro affidata a violino e violoncello, il brano assume le sembianze di una sorta di ambient oscura, quasi una versione neo-classica delle idee partorite dalle intelligenze IDM più brillanti (la performance vocale, poi, è sempre la ciliegina sulla torta).

La batteria è qui il vero quid pluris, perché nella versione originale non c'è, e il suo ingresso aggiunge decisamente movimento. Negli ultimi minuti, sembra in effetti esserci ben poco di classico.

Il movimento finale scopre le carte: qui Stetson trasforma la partitura originaria in una sorta di sinfonia post-rock (ma un post-rock degenerato, una sorta di sinfonia di rumori). La batteria lenta, pesante, quasi religiosa, è ancora una volta l'arma segreta del compositore. La seconda parte vive del respiro del sintetizzatore, mentre gli archi, acuti e taglienti, seguono le orme della voce. Il finale è una discesa nel maelstrom: la musica rallenta e si spegne come un motore che perde i colpi.

L'impressione complessiva rimane positiva: Colin non ha perso la voglia di osare, e anzi omaggia con classe, eleganza e originalità una fra le opere cardine della sua vita, e con essa una miriade di ispiratori.

Manca forse il pathos ancestrale dei lavori migliori, ma poco male: quando si parla di Stetson, si cade sempre in piedi.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.