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R Recensione

7,5/10

Anatrofobia

Canto Fermo

Pillola di aneddotica personale: quando scrissi per Storiadellamusica di “Brevi Momenti Di Presenza” degli Anatrofobia, nel lontano dicembre 2007, non avevo ancora compiuto quindici anni. A ripensarci oggi, da un lato, la circostanza fa sorridere, se non altro nel raffigurarsi che razza di effetto potesse allora avere un disco del genere sulla mente e sul gusto estetico in formazione di un giovane adolescente: dall’altro, invece, atterrisce rendersi conto di non sapere come e dove sia volato così in fretta il tempo. Chissà se lo sa il quartetto torinese, autentiche ed intoccabili per quanto mai sufficientemente celebrate istituzioni dell’underground jazz italiano, che di tempo – e di sua attesa – ne sa certo qualcosa: sei strepitosi full lengths nel decennio abbondante 1997-2007 (le preferenze del recensore, per quello che può valere, vanno ancora a “Frammenti Di Durata” del 1997 e “Tesa Musica Marginale” del 2004), poi uno iato in(de)finito, spesso, impenetrabile, interrotto sporadicamente dal momentaneo baluginio di ancor più misteriosi side projects (vengono in mente gli EA Silence del bassista Luca Cartolari, oltre ai recentemente scongelati Mathians del fratello sassofonista Alessandro, su cui spenderemo a breve qualche parola).

Una delle tacite ed inamovibili regole d’oro della buona narrativa recita: per ritornare in scena dopo un’assenza prolungata, un personaggio dev’essere mosso da ragioni radicali, irrinunciabili. Gli Anatrofobia di “Canto Fermo”, coprodotto da cinque etichette, sono una ragione sociale che quasi più nulla ha a che vedere con il proprio passato: non solo per i coraggiosi stravolgimenti di formazione (quasi del tutto escluso Alessandro Cartolari, che cofirma la sola “Nero Di Seppia”, mentre l’asse ritmico Luca Cartolari-Andrea Biondello viene sostenuto dall’innesto di lusso di Paolo Cantù a chitarra elettrica, clarinetto e chincaglieria elettronica e dall’ingresso alla voce dell’ex Masche Cristina Trotto Gatta), ma anche e soprattutto per i particolari di una proposta che, se già negli anni di maggiore visibilità veniva difficile ricomprendere sotto etichette uniformi, oggi sfugge definitivamente a qualsiasi tentativo di (finanche approssimativa) classificazione. Ad esempio, i più distratti potrebbero non accorgersene nemmeno dopo ripetuti ascolti, ma quattro degli undici brani della scaletta sono cover – laddove per “cover” s’intendano versioni ribaltate da cima a fondo, quasi al limite dell’irriconoscibilità. Si prenda “The Speeding Train” dei Van Pelt, un magma post-free jazz frantumato in decine di tessere componibili, quasi una nervosa sonata chamber post rock attraversata da spasmi elettrici. Ancora, il superclassico di Paul MotianIt Should’ve Happened A Long Time Ago” (di cui esiste una meravigliosa interpretazione friselliana) divampa in una coda memorabile, in cui la voce eterea di Trotto Gatta guida l’assalto tra il basso effettato di Cartolari, i tamburi fuori controllo di Biondello e il clarinetto sanguinante di Cantù. Un ponte fra colto e popolare viene lanciato dal “Valzer De La Stacada Di Breil”, traditional della val Roia qui restituito in una versione fluttuante, sospesa tra vibrazioni umbratili e arcani rimandi folk (Alessandro Sosso alla fisarmonica). È, soprattutto, il caso della conclusiva “Golden Slumbers” (sì, proprio quella!), trasformata in una sconnessa e sussurrata alta marea RIO dal fascino mesmerizzante.

We all have reasons / for moving. / I move / to keep things whole”: così la penna di Mark Strand nello splendido componimento poetico sillabato da Trotto Gatta nell’omonimo brano, esplorazione astratta lasciata navigare a vista in un vuoto cosmico, un astral jazz svuotato di qualsiasi materialità, segnato dagli armonici del basso di Cartolari e dalla batteria semovente di Biondello. Spostarsi per tenere tutto assieme, in una visione assieme superomistica e panteistica, strutturalista e generativa delle cose. Accostare il libero minimalismo dark jazz della title track al recital ambient-isolazionista di “Rubik” (con ascesa ritmica tumultuosa, straripante), gli anfratti aguzzi e dissonanti di “Nero Di Seppia” a venti radioattivi schiaffeggiati da spazzole jazz ed epifanie labradfordiane (“Details”) sino alle angoscianti, statiche destrutturazioni no wave di “Alice Wonders”. Andare oltre per andare oltre, sino a quando non rimane nulla e, come nel Secret Painting di Mel Ramsden, scorgere quello che non si può scorgere.

Anti-disco italiano dell’anno. Tredici anni di attesa ben spesi.

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