R Recensione

7,5/10

Daniel Michael Clark

Black Billowing Clouds

Di Daniel Michael Clark, artista e musicista nato nel 1988 nell’Oxfordshire e ora residente a Londra, qua su SdM se ne parla dal 2009, ossia da quando, con il moniker Clara Kindle, produsse in 30 copie uno splendido disco di folk hauntologico fatto in casa, su cui solo noi al mondo si è scritto (ma che qua si ascolta tuttora). Ne seguì, oltre a una collaborazione con il genietto Birdengine, una cassetta di impronta più schiettamente folk (“Neighbourhood Spook”) e una tape di droni scurissimi (“Where the Seiche Sips”) accompagnata da alcuni disegni d’autore. L’ultima uscita di Clark, “Black Billowing Clouds”, porta avanti questo incrocio tra arte visiva e musica, mescolando dal punto di vista sonoro le due maniere su cui Clark ha lavorato finora, ossia quella folk e quella di scuri loop elettronici registrati su quattro tracce.

I dodici pezzi della cassetta alternano, sempre su registrazioni fatte-in-casa di bassissima fedeltà, momenti strumentali tempestosi (“Arrival”), celesti elegie (“Endless noes & yeses”), piccole rifiniture di folk nero (“Held in Giant Hands II”) e cortocircuiti elettronici scassati (“No Name I”). Ben rende, naturalmente, la copertina ciò che qua dentro si respira: un cielo basso e nero, una dispersione introversa, una triste fuga scoperta e svilita («if you burrow under ground they will surely dig you out» è il refrain del disco). La voce di Clark alterna sussurri rochi a falsetti che provano, invano, il volo. L’effetto finale è di una fragilità senza redenzione. Di chi comunque, sotto, resiste («Somehow we have been surviving beneath»).

Gli apici sono la ballata di amore-e-morte “Tobias (I Tried My Best)”, costruita su un giro discendente che sa molto di portisheadiana “Glory Box” e che si arricchisce via via di sovrapposizioni vocali e bordoni velenosi, “Held in Giant Hands", temporale non esploso da brughiere inglesi che si forma su diversi nerissimi strati di arpeggi, e "Ceiling Legs", che invece, dopo alcuni minuti di loop tortuosi, si apre in pennate di chitarra liberatorie, vicine però a un punto di rottura e distorsione abrasiva quasi in stile Hood.  

Da quattro anni io e l’amico Zorba sosteniamo che Daniel Michael Clark dovrebbe ascoltarlo un po’ di gente in più, e magari un’etichetta. A noi continua a destare adorazione. Non solo per la bellezza artigianale e la cura dei suoi lavori. Ma perché ci sentiamo così, come lui, in un modo che lui continua a dire benissimo.

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gull alle 12:00 del 4 dicembre 2013 ha scritto:

Io grazie a te lo seguo. Anche stavolta ho preso la cassetta (ma perché in cassetta?). Mi ha spedito la n. 5 (a riprova del fatto che viva davvero ai margini dei margini dei margini) e mi ha anche regalato un lavoro recente. A me piace la sua visione musicale, placida, casalinga, sottilmente disperata e alienata.

target, autore, alle 14:35 del 4 dicembre 2013 ha scritto:

Grande Gull. Non so, in effetti, perché in cassetta. Forse la cassetta dà più garanzie di durata (paradossale, ma vero, finché autoproduci). Dopo aver portato in Italia l'amica Kristin McClement ora con lo Zorba citato a fine recensione si cercherà di portare qua anche Daniel Michael e Birdengine.