R Recensione

5/10

The Dears

Missiles

Con il tempo ho imparato a riconoscere che, contrariamente a quanto ci insegnano fin da pischelli, la minoranza ha quasi sempre ragione, solo che non riesce a farla valere perché non ha abbastanza dané. Il quarto disco dei Dears, tuttavia, mi smentisce. Durante le registrazioni di “Missiles”, infatti, hanno abbandonato la baracca quattro dei sei componenti originari della band, lasciando soli Murray A. Lighburn, da sempre capitano del combo canadese, e Natalia Yanchuk, sua giovane sposa (chi ha detto paraculo?). Quattro contro due. E ascoltando il disco, ahimè, si capisce che la maggioranza, almeno in questo caso, aveva tutte le ragioni di questo mondo.

Dopo il pluri-elogiato “No Cities Left”, che prendeva il meglio del brit-pop e lo rilanciava in una chiave noir sinfonica e sfaccettata, e l’apprezzabile “Gang Of Losers”, dalle sonorità più sporche e americane, un po’ REM prima maniera, i Dears tornano in un’altra veste, più eterea e incupita, distesa e sottovoce. Questo “Missiles” vuole essere un’ambiziosa fotografia dell’annoiata apocalissi occidentale, e ahimè ci riesce benissimo, in modo persino troppo mimetico. I ritmi sono narcolettici, le chitarre carezzevoli, le tastiere invasive, i testi ultra-ripetitivi, le sezioni strumentali abnormi, i pezzi strascicati fino all’agonia (sei brani sopra i cinque minuti, tra cui uno di otto e uno di undici. Tombola). C’è noia a go-go, qui, e spiace.

Lightburn, la cui voce simil-Damon Albarn rappresenta quanto meno un gradito punto fermo, ha voluto sottolineare in svariate interviste la complessità del lavoro, definendolo essenzialmente “un disco blues”. Vabbeh, sì, di blues c’è qualche rifinitura di chitarra (in “Berlin Heart” soprattutto, a salvare quella che è per il resto una ballata da balera di provincia), ma probabilmente Lightburn aveva in mente altro, magari un senso fisico e popolarmente sanguigno di fare musica che avrà inteso riversare qui. Ma le intenzioni sono rimaste tali, e non è un problema da poco. Sicché a noi arriva un disco algido, chimerico, siderale, che si tiene a distanza. Altro che blues.

Basti ascoltare i passaggi strumentali inutilmente tirati per i capelli che ammorbano quasi tutti i pezzi: estenuante l’attacco di “Disclaimer”, cui non giova il sax; straziante la coda di “Saviour”, con tanto di cori di bambini dal sapore natalizio. E così “Demons”, “Money Babies”, “Meltdown In A Major” languiscono in salamoia per minuti tra cori che iterano le stesse parole e crescendo prevedibili, sfocianti più volte in assoli inediti per i Dears, quasi à la Pink Floyd (cfr. la chiusura della piacevole “Dream Job”).

Il pathos stiracchiato diventa atarassia quasi ovunque. Si salva la pur eterna “Lights Off”, il cui attacco acustico sa di Radiohead ("Exit Music") e la cui lunga coda psichedelica ha un che delle lunghe suite dei Pulp più sensuali. Spicca, invece, la title-track: piccolo capolavoro dark folk nella prima parte, in cui la voce di Lightburn sopra uno scuro arpeggio si fa litanica, sfogo rock ultradistorto e mogwaiano nella seconda parte, quando l’ammucchiata sonora esplode e il basso riverberato squarcia.

Ma un gran bel pezzo e poco più non redimono il disco: “Missiles” dimostra che non sempre la minoranza ha ragione, e che smantellare un’intera band in piena fase di composizione può costare caro. Un album intero, copertina (inguardabile) compresa. Ad meliora, sperando che la coppia Lightburn-Yanchak (neomamma: auguri!) non si chiuda a lungo in un’autarchia jalissiana tutto sommato sterile.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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Barto 8/10

C Commenti

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Barto (ha votato 8 questo disco) alle 22:32 del 30 ottobre 2008 ha scritto:

Non concordo

Anche ame al primo ascolto la maggior delicatezza globale aveva lasciato non dico perplesso, ma un po'dubbioso sì, però secondo me riascoltandolo meglio se ne colgono gli aspetti positivi, e a mio parere Lightburn ha nuovamente reinventato il suo stile facendo centro ancora una volta.