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R Recensione

5,5/10

Metric

Synthetica

Distrattamente ma però, sui titoli di coda di “Cosmopolis” di David Cronenberg, mentre metà della platea stava già varcando l’uscita ridacchiando per non aver capito un accidenti del film, e l’altra si alzava spazientita, brontolando per lo stesso motivo, mi ha colpito la canzone che doppiava i credits ed erompeva dalle casse. Che brano era? Difficile ricordarlo, ora. Che voce era? Impossibile dimenticarlo, anche adesso. In quel preciso istante ho pensato che, per un principio di metempsicosi al mondo ancora ignoto, Emily Haines è davvero destinata ad essere la nuova Deborah Harry, in tutti i sensi. Pensateci. Capelli biondi, presenza scenica mozzafiato, determinazione da rockstar evergreen, una bellezza fuori dal comune che migliora col passare degli anni, una testa strepitosa (e non si parla solo di quell’organo anatomico dalla forma sferica, ma anche e soprattutto di ciò che risiede dentro…). Energia ed intelligenza. La capacità di bilanciare frivolezza ed impegno. La leader dei Blondie aveva magistralmente interpretato Nicki Brand nel seminale “Videodrome” del maestro canadese: quella dei Metric, anch’essa canadese – ma nata a New Delhi – regala la sua arte allo stesso cineasta, trent’anni dopo. Un perfetto cerchio destinato a chiudersi.

Per essere Metric, poi, il quartetto di Toronto fa fin troppa fede, preciso allo sfinimento. Non solo nella musica, sia chiaro, ma nei ritmi, nell’impostazione, nell’inventiva geometrica. Così Metric da dedicare il loro quinto disco, “Synthetica”, all’architettura radical (chic?) del Superstudio fiorentino di Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia. Roba della seconda metà degli anni ’60, non prima. L’abbiamo già detto che Emily Haines abbina grazia ed acume: non vorremmo risultare stucchevoli. Un peccato, tuttavia, che stucchevole, in più d’una occasione – il difetto peggiore della band, sin dagli esordi di dieci anni addietro –, sia proprio l’album. Non lo scopriamo adesso e già con “Fantasies” del 2009, che pure aveva ottenuto uno strepitoso successo in patria e all’estero, avevamo espresso tutti i nostri dubbi su una formula, quella ancorata al revival new wave dello scorso decennio e legata ai tiranti indie rock che iniziarono a spopolare nel loro paese subito dopo, tanto gradevole quanto, sostanzialmente, involuta. Così i Metric non fanno passi avanti, ma nemmeno indietro: rimangono dove sono, Yeah Yeah Yeahs meno punk e più elettronici, Strokes ripieni di sintetizzatori, Broken Social Scene di seconda mano e di notevole semplificazione strutturale.

Un giudizio sommario? “Synthetica” è tutto, fuorché un brutto lavoro. Se uno ci fa caso, sono le stesse, identiche parole spese, all’epoca, per “Fantasies”. Il problema – se di problema si può parlare – è che il giudizio fatica, effettivamente, a spostarsi da dov’è. Finché la musica rimane in secondo piano, rispetto al look e ai testi (quelli sì, mediamente sempre molto curati), la questione non si pone. Sì, ma… e la musica? Limitata, as usual, come può esserlo, in queste vesti, nel 2012. Le nuvole elettroniche creano strati di suono paradisiaci, shoegaze senza averne la minima intenzione, gli anni ’80 congelati in armonie sommarie (“Artificial Nocturne”) e in riff scheletrici, essenziali, ipnotici, inchiodati a terra dalla voce smaliziata e sensualissima di Emily (“Youth Without Youth”) che, nel corso della scaletta, si permette pure l’esercizio ruffiano e miagolante in aperta presa per il culo verso il nuovo maledettismo di facciata dello star system mainstream (lo spassoso synth pop di “Lost Kitten”) e la sfrontata autodifesa della title track che, al grido di “Hey, I’m not synthetica”, zigzaga aggressiva tra chitarre taglienti e tastiere gommose. No, lei non è (ancora) plastificata, e anche sul resto del gruppo si possono accettare le riserve di onestà intellettuale, specialmente quando la sensibilità melodica canadese tracima negli Arcade Fire meets Interpol della splendida “Speed The Collapse”, e l’indie si fa carezza nelle strofe e acciaio nel refrain, anthem di una generazione addavenì da urlare a pieni polmoni (“Breathing Underwater”: da tagline “Is this my life, and my breathing under water?”).

Eppure – ancora una volta, proprio come i Blondie! – i Metric non possono esistere, nella loro essenza, senza il perno Haines. La patina gotica del piano di “Nothing But Time”, frustato da spifferi dark wave e da una potente cassa dritta, scivola nel vuoto. “The Wanderlust” è pomposa e banalotta, e solo l’inedito incrocio vocale della bionda cantante con i toni arrochiti e vissuti di Lou Reed regala scorci inediti ad un brano sostanzialmente innocuo. Male le sciabolate più elettroniche, con il martello uniforme di “The Void” che sembra uscito dal songbook dei Ting Tings e la zarrata futuristica di “Dreams So Real” (“shut up and carry on”? Ok, ok, ritiro tutto!) con effetti di sovrapposizione, ehm, sintetica di dubbio gusto e spinta vetustà. “Clone” è la ballata zuccherosa con frammenti vibrati di chitarra, ariosi ritornelli in minore e l'andamento incerto, bambinesco della Haines, come sempre, sugli scudi.

Innocui, loro. Ma il tempo, e il consenso, sono dalla loro parte. Dunque: in bocca al lupo e godetevi, una volta tanto, il successo. Anche voi, come il topo della finanza cronenberghiana, sarete ben presto valutati alla stregua di unità monetarie…

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