V Video

R Recensione

5/10

Long Distance Calling

How Do We Want To Live?

A pensarci sopra è curioso, ma tra le band con cui i teutonici Long Distance Calling presentano più punti di contatto spiccano i Crippled Black Phoenix. Entrambi figli particolari del genericissimo calderone post rock europeo: entrambi interessati da una vampata di ascesa critica e commerciale a partire dalla seconda metà del decennio zero; entrambi con l’atavico vizietto del secondo floydismo, estetico e filosofico (“How Do We Want To Live?” parafrasa quasi letteralmente il “Is This The Life We Really Want?” di recente watersiana memoria); entrambi, infine, in progressiva gravitazione verso forme rock vieppiù tradizionali e conservatrici – un’attrazione che ha coinciso, in entrambi i casi, con un drastico crollo qualitativo delle rispettive produzioni studio. Qui, tuttavia, la sostanziale differenza: mentre il collettivo guidato da Justin Greaves, pur dimenticati i fasti del passato, sembra essersi riassestato su di una decorosa medietà (vedremo se la tendenza si confermerà con il nuovo “Ellengæst”, già annunciato per il prossimo ottobre), il quartetto tedesco sembra aver definitivamente esaurito idee ed urgenza espressiva. Ad appena due anni di distanza dal discreto “Boundless”, con in più nel mezzo il generoso interludio live di “Stummfilm”, la corda torna nuovamente a mostrarsi con il settimo “How Do We Want To Live?”, questa volta – forse – in maniera irrecuperabile.

Piuttosto alti ed ambiziosi, anche se ricorrenti nel genere d’affiliazione, sono i temi con i quali decide di misurarsi il quartetto di Münster: la crescente invasività delle intelligenze artificiali, il loro rapporto con l’uomo, la curiosità come chiave di adattamento biologico e colonizzazione distruttiva, infine la devastante impronta ecologica di Homo sapiens che – come i virus, riferimento politico inserito di sguincio all’ultimo e certo non casuale – si moltiplica dissennatamente, a spese degli organismi che lo circondano (su questo è incentrato lo spoken conclusivo di Ula Gehret in “Ashes”). Ci sarebbe materia per scrivere parimenti un concept avventuroso o un polpettone senza arte né parte, ma i Long Distance Calling – sulla scia del loro recente e non troppo felice passato – scelgono di non scegliere, alternando esplicite autocitazioni (“Hazard” ha tutta l’aria di essere una versione editata della vecchia “Out There”), lunghe e stereotipatissime strumentali synth-post rock senza sussulto alcuno (di “Voices” è comunque interessante il provocatorio video, che ha già fatto alterare i metalheads più omofobi) a bombastiche zarrate Eighties (ma nella seconda parte di “Curiosity” le tessiture chitarristiche di David Jordan e Florian Füntmann, fra Tool e ultimo Gilmour, tengono botta) a tremendi anthem da arena appena accarezzati da spifferi wave (da dimenticare “Beyond Your Limits”, con Eric Pulverich degli Eloy alla voce). In quasi cinquantatré minuti sono sì e no una decina a suscitare un qualche interesse: per chi scrive, il raccordo di “Fail / Opportunity” (con il bel violoncello di Luca Gilles a volteggiare, in sequenze neoclassiche, su di un tappeto glitch) e una “Sharing Thoughts” che si perita di recuperare il classico rifferama metallico che caratterizzava il capitolo precedente.

Dove la prolificità non incontra più un adeguato standard qualitativo: i Long Distance Calling sono oramai divenuti un caso di studio. Non in senso positivo. 

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.