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R Recensione

6,5/10

Dirty Three

Toward The Low Sun

Sarà la carica che mettono in ogni pezzo, la passione, l'emotività che trasuda ogni accordo, ogni rullata, non lo so, sarà l'happening quasi blues che percorre diagonalmente le loro articolate sessioni musicali, non lo so, sarà il fatto che sono australiani – e quindi per antonomasia fuori dal tempo e dal mondo – eppure i Dirty Three sembrano davvero immortali: come può un album come "Toward The Low Sun" suonare così, nel 2012? Porta i 90's di certo post-rock da camera, trascina il rock in sperimentazioni fonosimboliche, dona ai suoni voce propria, ci manda a vagabondare un po' in qualche villaggio americano ai tempi delle carozze, dei banditi e degli sceriffi corrotti, un po' tra i fondali oceanici ("Ocean Songs", 1998), un po' in sella a cavalli ("Horse Stories", 1997), manco fossimo in un documentario di Jacques Cousteau o a spasso con Crocodile Dundee. E "Toward The Low Sun" ha il pregio di risultare ancora una volta inadatto ai tempi che corrono, a tratti sporco, antiquato, vecchio – un po' come lo splendido "Last of the Country Gentlemen" dell'anno scorso, di Josh T. Pearson e dello stesso Ellis – sebbene risulti fin da subito non tra i migliori lavori partoriti dallo sporco trio.

 Ma la verità sta piacevolmente nel mezzo: anzi, "Toward The Low Sun" è tra gli album più interessanti usciti in questo primo squarcio di anno nuovo. E parte duro con "Furnace Skies", tutto riff rasposi di Mick Turner, rullate incessanti di Jim White e frazioncine appena accennate dal violino di Warren Ellis. L'ascolto procede irregolare, come gli strascichi stanchi inerziali aritmici discontinui sregolati di una "Sometimes I Forget You've Gone" quasi improvvisata su pacate linee di pianoforte (novità!), come una "Rising Below" al trotto cavalleresco nella prima, geometrica parte e vorticosa a intermittenza nella seconda, tra il violino di Ellis che alterna versi aciduli e pizzicate a mo' d'arpa e la chitarra di Turner che verso la fine alza un imponente muro di distorsioni. C'è qualche pezzo meno riuscito che sa di già sentito, e magari è il caso di "Moon of the Land", che per andamento al metronomo segue gli zoccoli incerti di qualche cavallo di "Horse Stories", anche se in questo caso rischiarata da piacevoli effetti armonici nel mezzo; oppure "You Greet Her Ghost", che non conquista perché poco ispirata. Ma anche brani deliziosi trovano posto in "Toward The Low Sun", come la dolcezza romantica di "The Pier", il "molo" che nostalgicamente aspetta nuove canzoni dai mari, o ancora "Ashen Snow", racchiusa in una dimensione nuova ai Dirty Three per l'afflato favolistico tutto da scoprire; chiudono il tutto una "Rain Song" piacevole intermezzo pluviale costruita quasi solo sul violino pizzicato e sfregato, e soprattutto "That Was Was" – l'altra riuscitissima dell'album – con il suo bel gioco di contrasti nei toni, il rumore distorto iniziale che confluisce nella pura melodia al minuto 2.30.

 Quello che non delude mai in questo gruppo, in particolare quando non parliamo di opere immense come quelle del loro primo periodo, è la salda capacità di costruire brani in itinere, mai imprigionati in schemi fissi, liberi di improvvisare o anche solo di fingere di farlo: l'impressione è sempre quella di una musica sciolta da preconcetti stilistici, realista per suoni e colma di passione. La notizia bella del giorno, quindi, è che i Dirty Three, a distanza di quasi ventanni dal primo "Sad & Dangerous", dopo capolavori e qualche passo falso, sono ritornati sulla scena, nel 2012, con un album bello. Più di questo, francamente, non osavo sperare.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 3 voti.
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