Sun Kil Moon
April
La musica di Mark Kozelek è un languido, interminabile ultimo giro di danze nel salone in penombra di una nave che affonda nel mare dei ricordi. Acqua che scivola nell’acqua senza lasciare traccia. Riecheggia carezzevole sulle coppie che ballano, vestite con eleganza, sul loro ondeggiare e sobbalzare alimentato direttamente da una discinta collana di note pulsanti che assorbono come ammortizzatori. E poi la sua voce che indugia nell’atmosfera fumosa e si avvolge come una fune di salvataggio attorno alle sagome che si abbracciano silenziosamente. Nostalgica, eppure senza tempo perché al di fuori degli argini stessi del continuum spazio-temporale.
Come gli ospiti dell’ “Overlook Hotel”: figure in un libro della memoria che si accavallano alla luce crepuscolare dell’eternità. Mark Kozelek osserva il mondo ad socchiusi, come se il creato fosse uno spettacolo troppo intenso per il suo sguardo. L’eterea lontananza dei Red House Painters e il rammarico per quel prematuro cupio dissolvi viene, ad un tempo, colmata ed acuita da April, il nuovo Sun Kil Moon. Non che con questa reincarnazione dei suoi “Pittori della casa Rossa” (Koutsos e Mooney dei Red House Painters alla batteria e Stanfield ex American Music Club al basso) Mark sia definitivamente riuscito a superare se stesso, d’altronde quando hai già messo a spartito due sciocchezzuole come Down Colurful Hills e Rollecoasters i rischi, al pari delle aspettative, sono maledettamente alti, ma la sua vena poetica fluisce a tutt’oggi gonfia ed impetuosa come un ghiacciaio che ingrossa un torrente primaverile. Manco fosse un equilibrista, da sempre in punta di piedi sull’orlo del suicidio, Mark sa bene come farsi perdonare il torto di essere sopravvissuto a se stesso (e al malefico triennio’66-’69, a scalare di un anno: Jeff Buckley, Kurt Cobain, lui ed Elliot Smith). Il suo stile nel tempo s’è fatto più prosaico e meno trascendentale, è diventato più musicale e meno confessionale, più John Denver e meno Nick Drake, più commosso e meno atarassico, ma poco importa se, come in questo caso, la sua ispirazione si conferma adamantina.
Lost Verses, semiacustica e meditabonda, rumina le sue pennate per dieci minuti buoni, come teneri petali di rimpianti strizzati nel turbinio della vita, come una foglia secca schiacciata in un cassetto e poi dimenticata, elevando gradualmente la pastorale country ad orazione lirica, quasi temesse che quei versi potessero davvero sfuggirgli, abbandonarlo per sempre come piume in balia del vento. The Light è un degno omaggio all’arte chitarristica di Neil Young, serpentine elettriche e gracchianti, accordi insistiti e sfibranti e persino qualche mini assolo al ralenti, a cui i cori di Will Oldham e Ben Gibbard aggiungono una straniante tonalità da omelia. Lucky Man è un arpeggio celtico che s’avvolge su stesso come una treccia di spaghi dorati, come un sogno a cui aggrapparsi, quasi fosse una coperta immaginaria da tirare sul mento in un gelido mattino, quando è già passata l’ora di alzarsi. Unit Hallway è una ninna nanna honky tonk cullata dal fruscio delle spazzole e dalle spigolature sottocutanee del banjo.
In Heron Blue rispolvera la sua intonazione più virile per una “ghost dance” ipnotica e sognante dove le trame delle chitarre si rincorrono e si annodano in digressioni “spiritiche” degne di John Fahey. Moorestown, morbida come l’ala d’un cigno, è una torch song domestica, religiosa ed aurorale, intessuta alla sua maniera filando un sottotesto di dettagli rivelatori e frasi mai pronunciate. La splendida cantilena di Harper Road, col suo falsetto accorato ed ululante, testimonia che, forse, Kozelek ha la lacrima facile più facile che in passato.
Ancor più sotto l’egida di Young (con un guitar drone in vibrato di quasi un minuto) è, invece, Tonight the Sky, epica come una carovana di sogni ad occhi aperti che attraversa lo Stige della quotidianità per poi sfociare in un ritornello torpido e melodico. Like a River è un tex-mex scandito dagli zoccoli di una cavalcatura al passo. Tonight in Bilbao (con i quarti di “charlie” e ride che sembrano indurre ad uno stato di trance, i cambi jazzistici e le screziature droniche in penombra) e Blue Orchids (con le sue insospettabili fughe di flamenco) sono i brani che richiamano più da vicini i primi Red House Painters, anche se ora gli arrangiamenti, scarni ed allampanati, imbrigliano perfettamente la narrazione anziché lasciarsi trasportare da essa.
Questa è l’umile maestosità del più grande cantastorie degli anni ’90: a dischi così non dobbiamo mai abituarci e in nome loro vale la pena attendere cinque anni. O anche di più.
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