R Recensione

7/10

Mugison

Mugiboogie

Mugison, al secolo Örn Elías Guðmundsson è figura in grado di confermare e allo stesso tempo sfatare gran parte dei luoghi comuni legati alla musica islandese: perchè se è vero che, come gran parte dei suoi connazionali, il nostro è una fiera e tenace dimostrazione di approccio indipendente alla musica (il nome Bjork vi dice niente ?) è pur vero che mal gli si adatta quella calda glacialità (che fantasia ...) che spesso si associa ai musicisti d'Islanda, spesso con la mente e le orecchie rivolte alle spiritate e algide lande musicali popolate da gente come Sigur Ròs e Mùm.

Mugison, a partire da quel piccolo gioiellino di indietronica rurale che era Lonely Mountain (2003), ha visto crescere, assieme alla sua popolarità in patria, anche la padronanza di registri e di stili diversi e spesso contrapposti, sempre e comunque conficcati nella tradizione musicale americana, capace di sfuriate rabbiose e idrofobe, ma anche di sconfinati abissi malinconici.

Mugiboogie, in tal senso, è quasi proverbiale: sempre più distante dall'indietronica degli inizi (che aveva portato alcuni a parlare di Beck d'Islanda), il “figlio di Mugi” apre il disco con una scarica hard blues tersa e deragliante, distorsione a manetta su voce e chitarra, e per un secondo ci si chiede dove sia sparito l'interprete sgualcito e depresso di Poke a Pal.

Lo ritroviamo (in parte) nel folk blues nudo e crudo di The Pathetic Anthem, una roba da tripudio degli Appalachi, degna di un Iron&Wine primissima maniera o di un Oldham un po' più dritto e meno sdrucito. To The Bone è una ballad in minore, screziata di gemme blues e di echi (questa volta si) di Beck. Il blues resta filo conduttore anche lungo Jesus is a Good Name to Moan, di nuovo rivestita di asperità hard e lontani echi Zeppeliniani.

Il Mugison che ci accoglie nella successiva George Harrison è già il frutto di un altro schizofrenico e repentino cambiamento, soffice e sconsolato country crooner adagiato su dilatate armonie beatlesiane, mentre è di nuovo un Oldham d'annata a mormorare in punta di piedi sulle scheletriche corde di Deep Breathing e My Love I Love e sul tappeto d'archi di The Great Unrest.

I'm Alright, altro colpo di scena, altro cambio di costume, Jekyll cede ancora una volta il passo a Mr. Hide, bestia idrofoba e urlante, tra growl e industrial, intenta a mugghiare in I'm Alright e Two Thumb Sucking Son Of A Boyo.

E ancora, The Animal, molto meno animalesca, paradossalmente, rilassata ballata di soul bianco tra Jamie Lidell e Beck.

Chiude la ballata fiume di Sweetest Melody, accorato blues rock degno di una lineup alternativa dei Big Brother and the Holding Company, con la Joplin sostituita da un misconosciuto shouter islandese. Che è anche cantastorie depresso. Growler iracondo. Affabulatore navigato. Orco minaccioso e menestrello raccolto, a fasi alterne.

Questo è Mugison, nel bene e nel male, fieramente eclettico, altalenante, umorale, a tratti indigesto, a tratti sublime, ennesima scheggia impazzita del già bizzarro panorama Islandese. In virtù, e in barba, di tutti i clichè.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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fabfabfab (ha votato 6 questo disco) alle 22:52 del 10 settembre 2008 ha scritto:

Bella recensione. Il dischetto è anche carino. Quello che vorrei far notare, però, a costo di risultare pedante e pesante, è che Will Oldham e tra gli artisti più citati nelle pagine di Storiadellamusica, però poi nessuno se lo fila di striscio ... va beh, va beh, la smetto qui.