The Black Heart Procession
Six
Mica è facile. Se cambi ti accusano di non essere più lo stesso. Se non cambi ti accusano di mediocrità. Se metti in atto modifiche drastiche sei un traditore, se ti discosti leggermente dal tuo passato non dimostri coraggio. Che fare, dunque? Cambiare la squadra che vince o puntare sempre sul cavallo favorito?
I Black Heart Procession l’hanno studiata così: poiché il primo album (“I” - 1998) aveva ottenuto un discreto riscontro, hanno deciso di riproporre le stesse sonorità nel secondo (“II” - 1999). E siccome molti salutarono il secondo album come un vero capolavoro (ve lo ricordate ? “Blue Tears”, “It’s a crime I never told …”?), Pall A Jenkins e Tobias Nathaniel decisero di utilizzare la stessa formula a base di ballate gotiche nere come le notte e tormentate processioni amorose anche per il terzo album (intitolato, guarda un po’, “III” - 2000). In quel periodo il sottoscritto vide la band di San Diego dal vivo due volte. La prima, nel 1999, per un concerto memorabile, ricco di poesia nera e sentimentalismo decadente, complice un romantico viaggio a due Torino-Cuneo ed live-set completamente incentrato sulle gemme contenute nei primi due album. La seconda, nel 2000, una noia letale, a causa di un set monocorde basato sui brani del terzo album ma soprattutto della sfinente performance di un Pall A Jenkins a dir poco autoindulgente, tra annoiati lamenti vocali e l’abuso costante di una sega da falegname suonata con l’archetto.
Mi piace credere che in quell’occasione, quando molti spettatori abbandonarono la sala prima della fine del concerto, i Black Heart Procession decisero di cambiare rotta. Nel 2002, infatti, “Amore del Tropico” introdusse elementi ritmici e decise sterzate in chiave puramente “rock”. Non tutto era a fuoco, ma la volontà di smarcarsi da uno stilema sonoro fin troppo riconoscibile risultò evidente e piacevole.
Pur dichiarando fin dal titolo un “ritorno a casa”, “Six” riprende il discorso evolutivo interrotto con il precedente “The Spell” (2006), (re)introducendo quegli elementi foscamente inquieti che resero celebri i primi tre episodi della serie. L’iniziale “When you finish me”, ad esempio, riprende la tradizione dell’intro-cantilena che nei primi album prendeva regolarmente il titolo di “The waiter”. Allo stesso modo, “Drugs”, “Liar’s link” e “Last chance” ripropongono il vecchio tema della ballata tenebrosa punteggiata da grevi rintocchi di pianoforte. Appagato perfettamente l’effetto deja-vu, i brani più convincenti risultano essere quelli più inclini a sporcarsi le mani: il riff tondo e circolare di “Witching Stone”, il drumming cadenzato di “Rats”, le atmosfere in bilico tra redenzione e dannazione in odor di Nick Cave di “Heaven and Hell”, il rock teso di ”Forget my heart” (assai vicino alle sonorità del gruppo-madre Three Mile Pilot) o la corsa notturna di “Suicide”, emblema di un suono cupo e profondo, guidato da un basso mai così insistito e rilevante nel suono della band californiana.
Insomma, un ringraziamento alla Temporary Residence per aver salvato questo disco (che rischiava di sprofondare nel fallimento Rough Trade), riconsegnandoci dei Black Heart Procession talmente in forma da poter accontentare sia i più nostalgici che i fautori del cambiamento a tutti i costi. Tanto che l’invito a prendere una decisione – questa volta – sembra davvero fuori luogo.
MySpace: http://www.myspace.com/theblackheartprocession
Video:
"Witching Stone" - http://www.youtube.com/watch?v=kN8_B5SBMiM
"Drugs" - http://www.youtube.com/watch?v=p5rpdnt0v3s
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