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R Recensione

7,5/10

Paolo Saporiti

Acini

Padri, madri e figli. Figli che diventano padri, figli che rimangono tali anche quando diventano padri, madri che divorano figli, padri e madri in perenne conflitto. Le ossessioni tematiche di Paolo Saporiti sono così pervasive e fondamentali (nel senso etimologico del termine: basilari, ataviche) da poter costituire materia per un romanzo o, meglio ancora, per un intero ciclo di romanzi, alla maniera di una Joyce Carol Oates della psicanalisi. Un romanzo mai dato alle stampe, nella storia di genesi e gestazione di “Acini”, a dire il vero c’è: peccato che l’autore non sia Paolo, ma suo padre (!). Ritorniamo così, senza nemmeno volerlo, al punto di partenza: così che il sesto disco del musicista milanese (settimo a considerare anche l’EP “Just Let It Happen…” del 2008), il primo solista dal notevolissimo “Bisognava dirlo a tuo padre che a fare un figlio con uno schizofrenico avremmo creato tutta questa sofferenza” del 2015, è forse il suo più metatestuale, il luogo dove la storia altrui perde i suoi connotati e si fa possesso comune.

Sostengo già da molti anni – non senza sollevare reazioni di educata incredulità da parte della silenziosa maggioranza che insiste a far morire con Faber la nostra tradizione cantautorale – che Paolo Saporiti sia attualmente (oggi, qui, ora: ma anche ieri, lì, allora) il nostro miglior songwriter, lontanissimo per sensibilità lirica e musicale dall’Italia e per questo italianissimo. Nel recente passato ne abbiamo lungamente elogiato la continua tensione allo sperimentalismo, una vandalica sfida a sé stesso culminata nei due dischi del gruppo-esperimento Todo Modo (da cui, tuttavia, attendiamo quantomeno un terzo squillo di sintesi, chiarificatore). Con “Acini”, almeno alle prime battute, torniamo ad apprezzarne lo straordinario gusto melodico, la coralità sotterranea che innerva l’epidermide di bozzetti altrimenti meno che nudi. Già l’iniziale “A Due Passi Dal Cielo”, con quel sottile passo di marcia bagnato da sparse chiazze di tastiera che ricordano il rustico artigianato vintage del Moltheni de “I Segreti Del Corallo”, possiede un lontano respiro buckleyiano estraneo al nostro canzoniere: con le successive “Che Cosa Rimane Di Noi” (nel cui ritornello dimesso sembrano quasi baluginare sovrastrutture shoegaze, ovattate chitarre elettriche à la Aereogramme) e “America” (un acuto sirtaki crepuscolare che all’approcciarsi del refrain si copre di polvere) le contaminazioni si spingono ancora oltre, declinando la narrazione dell’attore principale in una serie di capitoli fra loro comunicanti e al contempo indipendenti.

Nell’intenzione di Saporiti, “Acini” dev’essere un “[…] lavoro pieno di amore, declinato nelle sue varie forme. […] Che cosa rimane oggi davanti ai nostri occhi, se non i nostri sentimenti più profondi, con cui fare i conti nel bene e nel male?”. È un esistenzialismo più lucido che mai, quello che anima la penna del cantautore e lo porta a scrivere episodi densi e complessi come “Le Passeggiate Notturne Del Re”, sei minuti di intensissima introspezione à la For Carnation che si susseguono in ondate irregolari di stratificazione strumentale. Si tratta dell’apice esplorativo di un acuto sentimento di perdita, già lumeggiato nel sottile gioco metaforico di “Arrivederci Roma” (Teho Teardo meets new acoustic movement), nel vigoroso piglio brit rock di “Profumo Di Te” (Cristiano Calcagnile nuovamente alla batteria, per uno dei suoi consueti trastulli a-ritmici) e nel pigro, zanzaroso bluegrass di “Anima Semplice”. Brani certamente classici – se per classico intendiamo l’aderenza a schemi e strutture predefiniti e comunemente accettati – ma non per questo meno efficaci: anzi, la nervosa costruzione a mezza voce di “Amica Mia”, risolta in un ritornello autogenerante che si muove su traiettorie armoniche già abbondantemente battute dal Saporiti solista (si risenta, tra gli approdi più recenti, “Figlio Di Madre Incompleta”), rimane comunque uno dei pezzi più brillanti del disco, per approccio e dinamismo.

In una perpetua rincorsa all’esaltazione progressiva della cripticità, un lavoro come “Acini” verrebbe valutato come un passo indietro rispetto ai promettenti linguaggi ibridi aperti a partire da “L’Ultimo Ricatto” in avanti: se non fosse che questo metro di giudizio è una fesseria senza paragoni e il refrain de “La Mia Luna” (“Come te non c’è nessuna / Per me”) è il semplice, perfetto sigillo all’ennesimo grande disco. Da ascoltare, riascoltare e mandare a memoria.

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