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R Recensione

7/10

There Will Be Blood

Wherever You Go

Fortunatamente, nonostante anni di ascolti, ogni tanto capita ancora di farsi sorprendere da un disco. La sorpresa è ancora maggiore quando ci si trova davanti ad un disco d’esordio, di una band di cui fino a cinque minuti prima non si sapeva neanche dell’esistenza. E’ quello che mi è successo mettendo nel lettore il cd di questo trio (due chitarre e una batteria) di Varese.

Un disco che lascia senza fiato fin dal primo brano, lo strumentale “Coyote”, con cui il trio ci porta immediatamente nell’atmosfera dark e malata del racconto. Un tipico racconto americano, di quell’America oscura, che abbiamo imparato a conoscere attraverso la letteratura e i film, con le sue storie maledette, di perdenti, di uomini che trovandosi ad un bivio scelgono immancabilmente la strada sbagliata. Questa è la storia di uno di quegli uomini, un uomo che aveva tutto (“una casa, una famiglia, una vita, un’anima”) e tutto ha perso, facendo la scelta sbagliata. E che cercando di riprendersi dalle sue cadute, condanna se stesso.      

La musica che accompagna questo concept non può che essere una musica oscura, che sa di polvere e zolfo, tipicamente americana come è il blues. Un blues elettrico e cattivo, che richiama alla mente R. L. Burnside o i più moderni Black Keys, ma non dimentica i grandi del passato. Dai Led Zeppelin più sporchi che si sentono in “White Walls”, ai Rolling Stones più blues che fanno capolino in “Death Letters”, splendida cover, cattiva e tagliente, di uno dei grandi padri del blues (e quindi del rock), Son House, fino agli Stooges che ritroviamo nella violenta e lancinante “The Blood” (“no God, no saints, no helping hands, just breathe, the cold of death, and i’m crying tears of blood”).

Ma è tutto il cd che rasenta la perfezione, passando dallo slow talking blues contrappuntato da una ottima slide del racconto di “The Story of a Woman Who Kisses Only Once, al rock‘n roll a rotta di collo di “Circus of Truth”, con il suo attacco killer ed un gran tiro di chitarra e batteria. Convincono anche i brani più scarni, come “Stomp or Fall” sostenuta solo da handclapping e una chitarra, o la conclusiva “Black Rain”, dove i colpi della cassa della batteria sostengono il ritmo di uno slow blues contrappuntato dalla slide, creando un’atmosfera molto vicina alle classiche murder ballads tra Nick Cave e Tom Waits.

Sostenute dalla batteria essenziale di Mattia Castiglioni, le due chitarre di Davide Paccioretti (slide e voce) e Riccardo Giacomin dialogano alla grande in tutto il disco, ed esplodono in “The Faith”, dove il protagonista si rivolge disperato ad un dio che sembra aver abbandonato i suoi figli (“you were condemned to death, but Im carrying the cross, maybe you’ve fallen three times, but I’m still on the floor”).

Essendo un concept, ovviamente i testi, profondi e intensi, riportati nella splendida ed originalissima confezione, sono parte essenziale di un disco mirabile, profondamente americano, in cui il trio varesino sembra riprendere la strada del “chitarra e batteria” riportata alla notorietà dai White Stripes, ma senza essere modaioli, e soprattutto con una consapevolezza della materia che capita poche volte di trovare nei musicisti italiani. Da Robert Johnson a Johnny Cash, in questo disco ci sono cento anni di storia di quella musica e quella letteratura americana che ci hanno raccontato di uomini in lotta con il diavolo, con le debolezze dell’essere umano, e, in ultima analisi, con la propria vita. Ora vaga da solo, lungo strade scure che non portano a niente. Ovunque andrà, there will be blood.

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