Otu
Clan
Dai tortuosi dedali delle periferie bergamasche sino al Fiscerprais Studio di Riccardo Rico Gamondi degli Uochi Tochi, la nuova e gradita sorpresa dello sconfinato landscape hip hop italiano viene quasi inavvertitamente risputata fuori, dal grembo dellunderground, a contatto con la nuda e butterata superficie dellambito di appartenenza. Che poi, ambito di appartenenza Una parola definirlo. Come un Endtroducing , solo ventanni dopo e, per di più, quasi completamente suonato (e no, tirare in ballo i Roots non può valere per sempre): come una catasta di significato metamusicale che nel mash up Wugazi e dintorni, tanto per intenderci trovi la sua legittimazione artistica; come un Flying Lotus senza frammentazione né schizofrenia; oppure, chi lo sa, come un reboot giusto un pelo meno avventuroso di Shape Of Broad Minds, Shabazz Palaces o Run The Jewels. Cose che in Italia (tanto per ammazzare in culla la discussione e dare la stura al chiacchiericcio) non vanno di moda, e chissà se e quando lo saranno: Otu è un progetto che di questambiguità si pasce e su queste contraddizioni costruisce un messaggio compiuto e coerente.
Due i mastermind dietro il flusso di coscienza di Clan: Francesco Crovetto, produttore e batterista, e Isaia Invernizzi, a chitarra e Omnichord. Le due anime agiscono allunisono, rispettando un perfetto principio di complementarietà: tanto quadrato e solido lo stile del primo, quanto eterogeneo e melodicamente variegato quello del secondo. In comune, una certa cerebralità dapproccio e, naturalmente, il mosaico di voci campionate dai rispettivi sampler: iconiche parole in libertà, un manifesto nel manifesto, una cartina al tornasole artistica che giustappone simboli del presente e del passato, reali o immaginari. La grande complessità che deriva dallimpianto concettuale è pari solo allambizione con cui il concept viene portato avanti: un pastiche realmente indefinibile, dove percolato West Coast e vaporose armonie retrò-soul convivono senza scontrarsi (Mark), il trip hop incuba emozionanti arpeggiati fugaziani e riffing quasi matematici (Peter), lexotica si fa inquietante rifrazione carpenteriana (Santos), elementari bordoni reggono la baracca di epici storytelling cinematografici (Ali), Mogwai e Massive Attack si materializzano nello stesso pezzo (Wendy) e i bassi si fanno più acidi e pervasivi (la dubstep di Q/Ter è lunico frangente realmente distonico dellintero lavoro). Se anche a tratti si ha la sensazione che non proprio tutto sia effettivamente funzionale al discorso (superflui, a detta di chi scrive, sono lurban reggaeggiante di Jay/G e il prolisso western sospeso di Hal), particolarmente interessante rimane comunque Edward che appoggiandosi su un beat lynchiano e su una costruzione post rock vecchio stampo inventa una seconda grande metà di frastornante immobilismo drone, una chitarra impiegata a guisa di sirena antiaerea e rimpallata da pochi, essenziali tocchi di piatti.
Stimolante e abbondante. Il successo artistico di Otu è appena iniziato.
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