God Machine
One Last Laugh In A Place Of Dying
“To our friend Jimmy.”
Una dedica scarna di quattro parole per razionalizzare il senso della perdita. O almeno provarci. Jimmy non c’è più e un tumore maligno ha bloccato per sempre gli ingranaggi speciali della Macchina Di Dio. Il dolore reclama spazio, implode in un’ultima catarsi stoner-Zeppelin di fughe psichedeliche e dolenti scenari esistenzialisti, poi magari ci penserà il tempo a ricucire i tagli e l’incredulità per il vecchio compagno scomparso. Adesso no, perché Jimmy quel memorabile viaggio con Robin e Astin avrebbe voluto finirlo a modo suo. Sarà la grassa risata finale alla spettrale falciatrice, sfidata negli occhi senza timori né rimpianti.
Il presagio imminente della Fine torna lacerante e ciclico nel solenne sturm und drang dei 69 minuti di “One Last Laugh In A Place Of Dying”, secondo capolavoro prodotto dal trio cosmopolita statunitense nel biennio tra il 1992 e ’94. Potremmo sottotitolare questa storia di addii e lirico mal-de-vivre come il curioso caso dei God Machine, la band che visse troppo poco e troppo intensamente, appena al di là del culto carbonaro nell’età d’oro dell’alternative-rock e di Seattle, –apro parentesi: le detonazioni art-metal di “Scenes From The Second Storey” faranno a malapena capolino nella top 50 inglese, ormai patria adottiva, e all’indomani dello scioglimento il loro magro catalogo rimarrà introvabile per anni- troppo spesso misconosciuti durante e dopo la loro vorticosa parabola artistica incendiata da due album sontuosi e forse è così che deve andare il cliché di chi sta cambiando davvero un genere dalle viscere, dimenticati dall’ottusità modaiola e dall’oblio del mercato che si divertirà in futuro a infestarci d’insulsi surrogati nu-metal. Ma basta entrare nei suoi complessi meccanismi di assurdo crossover da camera per comprendere che la Macchina Divina non è un’esperienza qualsiasi, ti fa ostaggio ad libitum come in una gelida ipnosi individuale. L’animo romantico e discretamente bohémienne dell’autore-chitarrista Robin Proper-Sheppard varca i primi passi dal solito college adolescenziale, nella natia San Diego, insieme al bassista Jimmy Fernandez, all’agile Ron Astin (batteria) e alla chitarra aggiunta di Albert Amman, che lascerà presto il proscenio agli altri tre quando ancora erano chiamati Society Line. Pubblicano l’ep “Purity” per la Eve recordings e una certa eco inizia a circolare nel sottobosco indipendente, si trasferiscono a New York, mutano ragione sociale in God Machine e vanno in Europa, sull’asse Manchester-Londra-Amsterdam. Infine fanno base nella nobile capitale britannica, un tour transoceanico da moderni poeti on-the-road che li porterà a stabilirsi definitivamente nelle lande europee, arrivando fino all’Est delle sessions praghesi del novantatre, e a firmare in Gran Bretagna l’importante, brevissimo, contratto con la Fiction-Polydor degli amati Cure.
Gruppo dall’indole errante, irrequieta i God Machine, che raggiunge il proprio Santo Graal forgiando un potente e spettacolare sound heavy-introspettivo ai tempi inedito, pensate solo al diligente alunno Chino Moreno dei Deftones mentre la coeva versione muscolare dei Tool otteneva le fanfare del successo e lode critica, un’apocalittica messa laica che in “OLLIAPOD” continua i passaggi alterni di asperità e quiete, di vuoti e pieni del predecessore, accentuando la matrice sinfonica di riflessive divagazioni post. Quattordici blues contemporanei di ferite profonde tra i pensieri cattivi della notte e la perenne abiura, simbolicamente scalfiti nell’arpeggio dimesso e negli archi melò della dark-ballad “In Bad Dreams”, e non a caso la metà ha il didascalico suffisso “song” come usavano i leggendari bluesman del Delta: “The Tremelo Song” manda in delay un chirurgico call & response di rasoiate distorte e ritmica Helmet a innervare la voce distaccata, salmodiante di Sheppard, è un impetuoso muro di suono che scuoia i 3 minuti a propulsione noise-metal di “Mama” e l’alieno riverbero psych “The Love Song” di nervosi stacchi epilettici, un alone elettrico ondivago nella formidabile “Alone”, con il ripetitivo mantra-riff di piccole note in crescendo che decelera rimirandosi mesto in una sezione ritmica pulsante e analitica (angst grunge via post-rock?) e nel sofferto minimalismo poetico del testo, dove la ragazza fuori dalla finestra non può offrire soluzioni all’ermetica solitudine “in compagnia dei Re” del protagonista (“…You’ll never understand so don’t…So don’t even try.”). “Painless” è estasi younghiana liquefatta in acidità hard, che sostituisce alle false utopie del passato l’amaro realismo della sconfitta, –“…And you said life could be painless, i’m sorry but that’s not what i’ve found…”- una consapevolezza lontana però dalla gratuita auto-commiserazione, che anzi cerca riscatto e rivalsa dai propri demoni nella coda desolata, circolare di “The Devil Song” (“…stay away from me…”), riversandosi nei rivoli elettrici e nelle oasi orchestrali degli otto visionari minuti della rapsodia barocca “The Hunter”.
Le trame tese di Fernandez e Astin marchiano “Evol” di un ritmo wave-industrial plumbeo e ossessivo, tra rumorismi assortiti, squarci metallici e voci indistinte, un’intro disconnessa all’epica malinconia socchiusa a venire (“The Train Song”) e a una “Boy By The Roadside” di folgorante espressività neo-folk, la vetta letteraria del disco (“…Hanno trovato un ragazzo morto in fondo alla strada…C’è un posto dove mi piace andare, che nessuno conosce. Non è troppo lontano, e se vuoi vedermi con la faccia schiacciata contro il muro non smettere di chiedere…Non smettere di chiedere…”). Sull’ipnotico requiem d’organo vintage e tastierino lo-fi del lungo carillon autunnale “The Sunday Song” il cerchio vitale dei God Machine si chiude beffardo: la morte sorride a chiunque e allora tanto vale sorriderle un’ultima volta. Jimmy Fernandez non vivrà oltre le registrazioni di quello che resta il suo testamento, Proper-Sheppard e Astin continueranno nei Sophia un dignitoso percorso di rock-autoriale ma l’imponente arte di quei due magmatici lavori che reinventarono il crossover è tutta lì, immobile negli annali. “…I wish i was a flower blowin' in the wind, so i could fly away but come back again and again…Again and again...”
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