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R Recensione

6,5/10

Blues Pills

Holy Moly!

Convivere giornalmente con la pressione stritolante di chi, pur giovanissimo, è già stato eletto come alfiere del revival del [neo[neo[neo[neo…]]]] rock, nel bel mezzo della contingenza storica peggiore di sempre per la musica con le chitarre (e con previsioni sul breve termine, tanto per aggiungere carico a carico, ancora più fosche). Vivere sballottati sull’onda anomala della ricezione dei primi due full lengths, accolti con un misto di gioioso conservatorismo e sospetto progressista. Trovarsi ad affrontare, infine, l’improvvisa e deleteria defezione di uno dei propri membri più caratteristici e firma principale di tutti i brani, smanioso di muovere i propri primi passi da solista. Quello vissuto nella loro prima fase di carriera dev’essere stato un periodo parecchio stressante per gli svedesi Blues Pills, che, difatti, dopo l’uscita di “Lady In Gold” hanno scelto di mantenere un profilo basso, al limite dell’invisibilità, per non finire disintegrati dalla propria stessa quotidianità, centellinando le apparizioni dentro e fuori dal gruppo: un silenzio necessario non solo a lasciar sedimentare le ferite di famiglia (l’ex chitarrista Dorian Sorriaux ha nel frattempo debuttato, due anni fa, con il modesto 12” “Hungry Ghost”), ma anche – e soprattutto – ad accompagnare la definitiva transizione verso la vita adulta con la compattezza e l’energia della migliore gioventù.

Se l’esordio omonimo (2014) certificava il distacco stilistico dei Blues Pills dall’estetica di riferimento della propria generazione e il sophomoreLady In Gold” (2016), nel tentativo di affrancarsi dal meccanicismo critico dei soliti facili paragoni, si rifugiava ancora più indietro nel tempo, il terzo “Holy Moly!” costituisce un insieme ibrido di brani che, pur non avventurandosi praticamente mai al di fuori di una mediana comfort zone, cerca di intercettare con personalità gli umori della contemporaneità, in un confronto dialogico con l’inamovibile tradizione che vorrebbe dirsi fruttuoso. Ecco dunque il manifesto di rivendicazione neo-femminista (“Proud Woman”) andare a braccetto con gli istinti carnali della protagonista di un mondo serrato a chiusura ermetica (“Lust” sembra essere stata modificata per rispondere alla realtà del lockdown), i virulenti esorcismi del recente passato (“Kiss My Past Goodbye”) alternarsi al biografismo blues della perdita di sé (“Longest Lasting Friend” è incentrata sulla depressione) e degli altri (“Song From A Mourning Dove”). È un’oscillazione perenne che va a riverberarsi anche sulle tessiture musicali, lungo una scaletta la cui spina dorsale è attraversata continuamente da tensioni contrarie e contrapposte. Così, dopo aver introdotto il discorso in medias res con lo strillato r’n’r jopliniano di “Proud Woman” (pezzo sin troppo trascinato ed elementare), il gruppo cambia improvvisamente passo, inanellando una tripletta di potenza dirompente. “Low Road”, la migliore del lotto, è un missile hard rock dal tiro quasi punk, trascinato dall’interpretazione debordante di Elin Larsson, dove per la prima volta l’ex bassista Zach Anderson mette in mostra le proprie (discrete) doti chitarristiche: “Dreaming My Life Away” è una selvaggia scarica hard’n’heavy che rotola su tamburi possenti; “California”, infine, inscena come pretesto un soul elettrico old style per permettere alla Larsson di sfoderare tutta l’ampiezza e la profondità del proprio range vocale.

Con queste premesse, insomma, viene piuttosto difficile sbagliare: e quanto allo sbagliare, infatti, i Blues Pills non sbagliano. Il problema, semmai, è che il giochino di tanto in tanto ancora s’incarta, vuoi per una evidente disparità tra pezzi lenti e tirati, vuoi per l’assoluta trasparenza semantica del genere. Piuttosto trascinanti nelle scorribande funk (la sezione ritmica di “Kiss My Past Goodbye” è spessa come una parete di mattoni: un plauso al nuovo bassista Kristoffer Schander) e nei tagli r’n’r più crudi (velenosissima la parte centrale di “Bye Bye Birdy”, chiusa in un assordante crescendo, con una prova di grande precisione balistica di André Kvarnström dietro le pelli), gli svedesi restituiscono risultati più altalenanti sia nei frangenti in cui la voce della Larsson sembra lasciata da sola a sorreggere la baracca (il rutilante r’n’r à la Raconteurs di “Rhythm In The Blood”) che, soprattutto, nei momenti di scarico, melodicamente un po’ spuntati. Gustose, nello specifico, alcune fra le tessiture r’n’b più classiche (“Wish I’d Known”, pur non riservando una sorpresa che sia una, è costruita impeccabilmente su una cornice di belle slide paesaggistiche) e discreto il tentativo di semiballata in “Song From A Mourning Dove” (per quanto essenziale, il solismo di Anderson è puntuale), ma altrove il bersaglio viene mancato grossolanamente (lo statico minimalismo soulish di “Longest Lasting Friend”).

È una finta sorpresa, al termine dell’ascolto, rendersi conto di ritrovarsi esattamente allo stesso punto dove ci si era fermati con “Lady In Gold”: segno di una progressione lineare uniforme. Di questi tempi, va detto, è grasso che cola.

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