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R Recensione

6/10

OJM

Volcano

Come la musica, anche la critica settoriale che se ne occupa trascina i suoi anni dietro ad un corso di continui cicli e ricicli. Polemiche antidiluviane vanno e vengono, con la sterilità di trappole consunte. Durante la puntata di oggi, andremo a parare nel sempre fertile territorio del retro-rock, etichetta che ai trevigiani OJM sarà stata applicata tante di quelle volte da perdere, ormai, il conto e la voglia di ripescarlo. Destino giocoforza condiviso, per tracciare un paragone estero, con i Black Mountain, dove la caratura del linguaggio autoctono viene fatta passare nove volte su dieci in secondo piano, grazie alla scusa che la polvere dei vecchi solchi di Black Sabbath e Blue Cheer è ancora così pregnante da obnubilare qualsiasi avversario temporalmente proiettato in the future. Se pensate, però, che “Volcano” sia roba da stringato comunicato stampa, due nomi e via, sarete costretti a ricredervi: nel bene e nel male.

Banalmente, tuttavia, la recensione potrebbe stilizzarsi in pochi punti. Dicendo, ad esempio, che il produttore di questo quarto disco è Sua Maestà David Catching, ex chitarra dei Queens Of The Stone Age. In fondo, a dirla tutta, non che il curriculum della formazione veneta spicchi per sobrietà nella scelta – oculata – dei pretendenti alla carica: come non ricordare, appena qualche anno fa, il sodalizio con Michael Davis degli MC5 ed il singolo tutto muscoli ed adrenalina inciso assieme a Brant Bjork (e dopo si dice che i giri giusti non esistono…)? Molto di più di una semplice raccomandazione. Ma quando ci si accorge che, nome roboante chino sul mixer a parte, quest’informazione avrebbe potuto essere omessa senza che ne risentisse il senso generale, le domande spuntano fuori copiose più delle citazioni disseminate nei dieci, generosi brani del lavoro. Scegliendo di puntare meno sul dinamismo garage che irrorava gran parte dei brani del passato, “Volcano” fa infatti impennare vertiginosamente il tasso di vecchiume – e facciamoli contenti, ‘sti gerontoclasti –, tessendo un bollente fil di ferro chitarristico della miglior tradizione hard rock settantina, amabilmente fuori tempo massimo.

Qui, poi, entra in gioco anche l’ironia del soggettivo. Cinicamente parlando, a “Welcome (Volcano)”, posta in apertura, si potrebbero aggiungere, con uguale nonchalance, le didascalie in 1970 o to the Sky Valley: il senso del discorso non cambia. Mutano, invece, a tratti sensibilmente, le coordinate su cui saranno destinati gli equilibri delle prossime prove in studio. Sotto questo punto di vista, il disco è un buon campo di prova, per osservare sotto stretta sorveglianza margini di crescita nel songwriting e di (d)evoluzione sonora. Molti sono gli spunti offerti, il che è sicuramente un buon segno. Parrebbe interessante sviluppare basalti stoner come “Venus God”, con le viscere saldamente ancorate ad una concezione pop della canzone, o decidere di percorrere la strada, diametralmente opposta, che si dirama tra i capillari di “Oceans Hearts”, sfavillante e cafone prog psichedelico devastato da un organo abbacinante: vertici di un triangolo, questi, idealmente coronato dal languido western peyotico in chiusura, “2012” (pure Voyager è avvisata) o dalla solidissima “I’ll Be Long”, sfilacciata sul finale in un’onda di bellissimi strali acid rock.

Per arrivare a considerare gli OJM una realtà a tutto tondo della nuova musica pesante italiana, in ogni caso, bisognerà ancora attendere. L’abbondanza di voces mediae in una tracklist tutto sommato rimpolpabile diventa alla lunga un disvalore, anziché un vantaggio, specialmente quando i toni scadono nella convenzionalità (i muscoli di “Cocksucker”, ordinario esercizio di forza alla Monster Magnet) o viene a mancare il collante tra forma hard ed esperienza psych, sfornando brani del tutto insipidi come “Escort”, segnale che gli ingranaggi dovranno essere oliati per bene in un prossimo futuro, se il percorso dei ragazzi continuerà a produrre frutti in questo senso.

Da ascoltare, perentoriamente, solo se boicottate Stephen McBean e trovate ingiusta l’appartenenza dei Torche a Palm Beach, piuttosto che al Delta del Po. Tutti gli altri si segnino il nome e ripassino tra qualche tempo.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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