Black Mountain
In The Future
C’era una volta il rock…Quello che partiva dal blues e lo arricchiva con riff sempre più pesanti e violenti, tanto da far coniare i termini heavy blues e hard rock. Quello che amava le dilatazioni psichedeliche e sapeva mischiare riff duri con un soul caldo e suadente e con dolcezze folk. Era il rock dei Led Zeppelin, dei Black Sabbath, dei Cream, degli Hawkwind, dei Blue Cheer e compagnia bella. C’era una volta e poi non fu più, decaduto per essersi preso troppo sul serio e aver perso la freschezza degli esordi. Decaduto per aver elevato ad apice musicale assoli e schemi sempre più pomposi e stranoti, tanto da risultare infine stagnante e ripetitivo, finchè non fu spazzato via dall’ondata punk che pose le basi per la new wave.
Quel rock, con quelle influenze, con quegli schemi, con quei suoni, si è sentito raramente dal 1977 ad oggi. L’ondata heavy metal ha condizionato gruppi rétro come i Guns’n’Roses e perfino il fenomeno grunge non ha saputo prescindere dagli apporti del punk (Nirvana) e del metal (Soundgarden, Alice in Chains), con l’eccezione forse dei Pearl Jam. Il cosiddetto “new rock” di questo inizio millennio, impastato di legami con la rivisitazione della new wave, ha anch’esso raramente saputo ricreare quelle atmosfere, con poche significative eccezioni come White Stripes, Dead Meadows, Comets on Fire e pochi altri.
In molti continuano a ispirarsi a quel periodo ma quasi tutti cercando di reinserirlo in un contesto che ha visto diverse rivoluzioni stilistiche e musicali quali quelle susseguitesi dal 1977 ad oggi. La neo-psichedelia ad esempio (Bardo Pond, Roy Montgomery, Warlocks) è andata molto avanti rispetto alle premesse space-rock dei 70s. Oggi la rivisitazione e la contaminazione sono all’ordine del giorno e viene da pensare che il futuro della musica e del rock in primis vadano in questa direzione.
A vecchi nostalgici come il sottoscritto non dispiace godere di questi ibridismi e delle nuove avanguardie più meno radicali che portano avanti questi percorsi artistici ma lo spirito resta immancabilmente e inesorabilmente rock e allora non può che far piacere sentire oggi, nel 2008, un disco tanto anacronistico quanto impeccabile come questo In the future. I Black Mountain sono un gruppo che sembra essersi fermato al 1973 o giù di lì, fregandosene di quello che è venuto dopo e ricreando quella magica atmosfera sonora divenuta ormai classica per gli amanti della musica.
Il gruppo canadese esordisce nel 2005 con un disco (Black Mountain) che solo apparentemente si perde nel calderone rock-rétro di questo decennio, facendosi subito notare per una freschezza e uno spessore compositivo notevoli.
In the future è l’ideale prosecuzione di quel piccolo gioiello. Perde in freschezza forse, ma acquista maggiore consapevolezza dei propri mezzi e la maturità porta a dar spazio a tonalità più epiche e maestose. Prendete Angels: una ballad straordinaria per capacità di evocazione paradisiaca. Uno di quei lenti in cui il binomio voce-chitarra torna in primo piano con una intensità assoluta.
Ma il pathos vero si trova in brani come Tyrants: partenza titanica a vortice, assestamento lisergico e bucolico e di nuovo impetuosa scalata in cielo tra una batteria picchiatrice alla John “Bonzo” Bonham, gli epici riff di Stephen McBean e il cantato sofferto di Amber Webber. Ma non è tutto. Seguendo uno schema progressive altro cambio di tempo e nuova serie di assoli e riff alla Iommi (Black Sabbath) prima della definitiva morbida conclusione. Giù il cappello di fronte a un hard-rock che non si sentiva da anni.
In the future è un calderone di influenze e scorre via che è un piacere: Queens will play viaggia tra Pj Harvey e i Jefferson Airplane di Grace Slick; Evil ways potrebbe essere un’ottima jam di Cream e Blue Cheer mentre Stormy high è un tipico hard-rock 70s in bilico tra Black Sabbath e Rainbow. Wild wind è un morbido pop etereo che prende le mosse dal primo David Bowie mentre Night walks è una song gelida e spettrale degna della migliore Nico. Così tra motivi folk pastorali-celestiali (Stay free) e dilatazioni psichedeliche alienanti (Wucan) si approda a Bright lights, il pezzo più ambizioso del gruppo: sedici minuti di raffinatissimo heavy progressive steso tra Pink Floyd, Hawkwins e gli ultimi Black Sabbath (beninteso tenendo conto del periodo Osbourne).
Forse non ci si dovrebbe esaltare così tanto per un disco derivativo fino al midollo che non inventa assolutamente nulla. Ma l’impressione è che un rock così puro si senta davvero raramente. E allora giù il cappello.
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