Wild Nothing
Nocturne
Jack Tatum si è ripulito, ahimè. Non tantissimo, ma quanto basta per smarrirsi. Dettaglio quantomeno ironico, se si pensa che analoghe operazioni di cleaning sonoro sono state, sono e saranno alla base di decisive rivelazioni in ambito pop (fra coloro che ne hanno beneficiato in misura esponenziale, ai giorni nostri, Ariel Pink resta forse il caso più eclatante). Nel qui presente "Nocturne", al contrario, la grandezza che fu del precedente "Gemini" non viene nemmeno sfiorata, pure se gli ingredienti di base del songwriting restano (quasi) gli stessi. Perchè, sì, si sente che Tatum ha approfondito lo studio dei Cure (specie nel timbro della "solista" con annesso balbettio alla Robert Smith), sacrificando, in un perverso sistema di pesi e contrappesi, la componente Wake, ma complessivamente il ventaglio delle influenze non ha certo subito drastici rimaneggiamenti. A tradire il musicista virginiano stavolta è l'organizzazione di suono e arrangiamenti, oltre ad una tracklist di valore tendenzialmente modesto.
Già, anche la scrittura non decolla: idee melodiche tirate troppo per le lunghe (cioè più di quanto consenta il loro potenziale), canzoni che arrivano a metà strada già col fiatone, altre che semplicemente non partono. A Tatum - qui per la prima volta accompagnato da una band vera e propria - non riesce il miracolo di cui sono stati capaci (o beneficiari?) i Real Estate sul "Days" dell'anno passato (giusto per citare un altro fra i più riusciti lavori di rielaborazione del versante indie-pop di derivazione '80s), ossia di reiterare gli intrecci chitarristici senza sforzo apparente, come in un trance lucido, esaltando il nitore dell'interplay e rinnovando, di volta in volta, "gli angoli di ripresa" mediante l'infittirsi di voci e fraseggio. Tutto nella pulizia più assoluta. Uno dei punti forti di "Gemini" era, al contrario, la vischiosità, la granulosità dell'immagine: liquido amniotico dove gli strumenti vegetavano, persi nel fondo, per poi emergere, improvvisamente, con un astuto gioco di zoom o primi piani appena accennati.
Restano pochi i momenti davvero apprezzabili di "Nocturne": una briosa Shadow (di gran lunga il brano migliore del disco, quasi un esercizio di variazioni sul canovaccio armonico di Out Of Tune, sempre a firma Real Estate), la Title Track, i pizzichii al nylon della notevole Through The Grass, The Blue Dress col suo drumming inistito e le nudità wave in bella vista. Belle canzoni, non c'è che dire. Però di canzoni superbe come Confirmation, The Witching Hour o Our Composition Book non v'è traccia, e far finta di non vedere - o non sentire - mi è impossibile. Soprattutto, era la sensazione di elegante precarietà (precarietà curata al millimetro, da non confondersi con sciatteria) a imprimere le tracce di "Gemini" in cuore e cervello, come se le sue immagini mosse e in perenne black & white acquisissero lo status di rivelazione. In "Nocturne" le impalcature sono belle stabili, si è lavorato sulla messa in sicurezza, ma l'aver placato le tensioni ha lasciato campo libero alla monotonia del disegno, alla sua prevedibilità. Dispiace dover constatare un passo falso, ma questo è il parere di chi scrive. Auguriamoci che la defiance non sia tale da minare alle fondamenta l'edificio Wild Nothing, e che Tatum ritrovi presto la strada di casa: il mondo (!) ha ancora bisogno di lui.
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