Paolo Benvegnù
Hermann
Se c’è una figura che più di tutte meriterebbe di essere presa ad esempio nell’evoluzione del cantautorato italiano (e in italiano) del nuovo millennio, questo è certamente Paolo Benvegnù. O meglio i Paolo Benvegnù. Un nome collettivo che racchiude la metamorfosi stilistica intercorsa in una categoria da sempre intesa come espressione di una poetica individuale. Chiamata ad interpolare qualità letterarie e necessità musicali, spesso a discapito delle seconde. E che in questo caso, invece, fa tesoro dell’assetto tipico della band, concetto cardine della musica rock in generale, inteso come gruppo di lavoro, come abilità nel manipolare e trascendere, attraverso l’affiatamento e il contributo di ogni singolo componente, i limiti e le risorse compositive del leader.
La musica di (o dei) Paolo Benvegnù unisce idealmente tre fra le stagioni più significative nella storia della musica pop italiana: quella post prog di fine 70, con la convergenza fra i propri reduci e gli autori legati ad un’idea più letteraria di canzone (emblematico nel sodalizio Pagani-De Andrè), quella della new wave degli anni 80 e quella del rock alternativo degli anni 90 (in molti ricorderanno Benvegnù alla testa di un altro gruppo: gli Scisma). Con Hermann i già immaginifici orizzonti musicali del precedente Le Labbra (2008) si dilatano ulteriormente. La sintesi di aggressività ritmica e distorsiva sull’asse indie/post-punk e arrangiamenti orchestrali di stampo classico assurge ad un grado più alto di profondità ed articolazione. La scrittura mozza il fiato per ricchezza di spunti e ariosità d’ispirazione. Evidenziando una capacità non comune di abbinare melodie tortuose e solenni a testi difficili, densi di simboli e d’immagini quasi divinatorie, che richiedono tempo e ascolti ripetuti ma, una volta messe a fuoco, rimangono indelebili nel loro enigmatico fulgore. Un concept che ruota intorno al mistero insondabile dell’uomo, alla sua contraddittoria scalata all’amore e al senso continuamente latente nella propria parabola, alla feroce ambivalenza delle sue pulsioni vitali. Fra citazioni letterarie (Hesse, Melville, Miller, Sartre) e sacro-mitologiche (Andromeda, Mosè, Ulisse, Narciso).
È un viaggio argonautico e metafisico quello intrapreso da Benvegnù e i suoi in mezzo al dispiegarsi potenzialità da ensenble pop-rock da camera (Il Pianeta Perfetto, Andromeda Maria, Avanzate Ascoltate) ed episodi più chitarristici e tirati come Moses, Good Morning Mr Monroe, che ha qualcosa del Battiato post-wave, e Il Mare è Bellissimo. E perfette congiunzioni di ambedue le costituenti come la meravigliosa Love Is Talking, col crescendo doppiato e sinuoso del ritornelloche è una cosa da brividi, la barocca e febbricitante Achab In New York, l’andamento percussivo e la volta teatrale degli archi in Sarte Monstre, avvolta fra le spire di moog e synth settanteschi, l’apocalittica Io Ho Visto. Vette che i Paolo Benvegnù ascendono senza smarrire quelle doti di semplicità e sottigliezza che sono tipiche del pop più intelligente e raffinato e che si rinnovano nelle più agevoli, acustiche, altalenanti Johnnie And Jane e l’incantevole L’Invasore, scritta e cantata dal polistrumentista (batteria, chitarre, synth e pianoforte) Andrea Franchi, che con Guglielmo Ridolfo Gagliano (chitarre, synth, piano), Luca Baldini (basso) e naturalmente Paolo Benvegnù (voce e chitarre) compone questo inestimabile, innovativo crogiuolo di songwriting “polifonico”. Dalla visione musicale, a un tempo, internazionale e profondamente italica. Nel senso migliore di entrambi i termini.
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