Lana Del Rey
Ultraviolence
Lana Del Rey, due anni e sette milioni di copie dopo. Born To Die, in qualsiasi versione sia stato consumato (preferibile l'edizione deluxe arricchita dal Paradise Ep, ma l'artwork dell'originale è troppo iconico), si è dimostrata opera pop di successo. Maltrattata, questo sì, da penne fin troppo severe/schierate, eppure a suo modo influente, scomponibile e ricomponibile, leggibile a più livelli: da riflessione in tempo reale sui meccanismi garanti di questa infiltrazione indie nel mainstream (o meglio, di questo inizialmente scialbo progetto indie che si rifà labbra e trucco e acquista un'identità artistica dentro al mercato), a definizione di un sound e di un immaginario - dei quali il personaggio Del Rey è ovvio baricentro originali e assai poco retro-qualcosa, come tanti invece vorrebbero. Tutto talmente gustoso, almeno secondo il sottoscritto, che ogni ulteriore discorso sul dopo-Born To Die scemava nella - forse irriguardosa, vista la caratura dell'autrice/interprete/attrice - constatazione di come un seguito quasi stonasse con la sferica compiutezza (mediatica, artistica, musicale) dell'intero progetto, appunto nato per morire. Ho già detto tutto quello che avevo da dire sembrava confermare Lana con astuzia.
La gestazione di Ultraviolence è stata tormentata. Secondo la Del Rey, l'album era pronto a Dicembre 2013 ma lei, sfiduciata circa lo stato di salute della sua Musa, ha preferito temporeggiare. Galeotto è stato l'incontro con Dan Auerbach (Black Keys), dal quale sono scaturiti profondi ripensamenti circa la scaletta e il sound. Per farla breve, mezzo album è stato registrato da capo. E si sente. Se c'è una canzone, anzi due, di Born To Die con cui è possibile tracciare un parallelo per il nuovo materiale, queste sono Blue Jeans (la più bluesy, dove i sentori americana sono intossicanti) e la torch song Million Dollar Man. A conti fatti, ciò equivale ad asserire che, per almeno tre quarti, Ultraviolence rinuncia alle dinamiche dell'esordio: gli archi sono diradati, spesso sintetizzati o miscelati ad altre tastiere vintage in odor di mellotron; via anche le ritmiche sintetiche/marziali, così caratteristiche, in favore di batteria vera e un approccio lieve, dreamy, tom tom a profusione ma mai in primo piano (cosa non è la magia dell'introduttiva Cruel World); persino Lana, pur approfondendo l'intimismo del fraseggio, non è mai stata così "sfatta" vocalmente, registrata con microfoni cheap, fra mille echi e ricercate imperfezioni.
Auerbach ripensa gli spazi, dilatandoli. Privilegia carrellate in slow-mo, strumenti che si perdono nella nebbia, voci a rincorrersi al buio. In qualche caso perfino le strutture si liquefanno (relativamente, almeno), come dimostra l'eccellente primo singolo West Coast: da una strofa mid-tempo a un ritornello catatonico (uno shock per la casa discografica), col passaggio che avviene nel modo più brusco possibile: ossia attraverso raccordi in cui il materiale letteralmente collassa. Percorso simile quello di Brooklyn Baby, embrione chitarra-voce di un brano girl group a sfociare, dopo mille sottigliezze, nel requiem percussivo del chorus (nel finale avrebbe dovuto esserci la voce di Lou Reed ad accompagnare quella di Lana, ma come sappiamo il destino ha deciso diversamente). Altrove il discorso si fa più concreto, a beneficio dell'intensità:Shades Of Cool, tutta spirali di fumo e canto da sirena; l'incantevole Sad Girl, un ritornello '70s che si penserebbe partorito dalla penna di Stevie Nicks; la cover The Other Woman", pezzo forte del repertorio di Nina Simone, forse l'interpretazione di Lana più commovente ever.
Destano invece parecchie perplessità i brani che di Born To Die ricalcano i capisaldi stilistici (la scansione marziale del beat, etc.), e quindi Money Power Glory e la sardonica Fucked My Way Up To The Top: pur avendo il merito di spezzare per pochi minuti il tono sognante a tratti soporifero - dell'album, restano entrambe più o meno involute . Poca cosa, infine, i tre inediti contenuti nell'edizione deluxe, fatta salva una Black Beauty prodotta da Paul Epworth che non avrebbe sfigurato in scaletta, magari al posto della bruttarella Pretty When You Cry.
Un lavoro, Ultraviolence, più cantautorale e adulto rispetto all'esordio; sorta di reflusso indie dopo la sbornia da grande pubblico, e quindi documento che testimonia un percorso inverso rispetto a quello che ha condotto Lana al successo. La critica specializzata e generalista pare compatta nel salutare una Del Rey finalmente artista e non più solo popstar, accogliendo Ultraviolence con toni che vanno dal sorpreso all'entusiastico (ma sul discorso vendite, nonostante il già annunciato primo posto Billboard, ci andrei più cauto: troppi sono i fattori da analizzare, alcuni dei quali parrebbero mettere in dubbio, sulla lunga distanza, risultati commerciali equiparabili a quelli del predecessore).
L'aspetto paradossale di questa improvvisa unanimità di consensi è che, a mio modesto avviso, LDR non è mai stata soltanto una popstar. Anzi, rincaro la dose: checché se ne dica, se c'è un suo album che costeggia pericolosamente il concetto di retrò, questo è proprio Ultraviolence (non mi meraviglierei se qualcuno l'avesse definito più onesto), quello che sovente si adagia su stereotipi invece di rivitalizzarli, quello senza strappi, senza i conflitti che rendevano Born To Die un'esperienza davvero inedita.
Alla orrorifica, destabilizzante metamorfosi del concetto stesso di teen pop (perdonate l'autocitazione) si sostituisce ora il narco-swing, come lo definisce Auerbach. Un sottofondo crepuscolare, fluido ma tendente all'indistinto, effluvio di sottovoce fuligginosi, malinconia discreta, luce soffusa: l'esatto l'opposto dell'espressionismo pop di Born To Die, delle sue luci abbaglianti da sala chirurgica, della sua solenne obliquità. Ciò che innervava quell'opera, rendendola oggetto indefinibile, in precario equilibrio fra due mondi, era l'incontro/scontro di matrici stilistiche e loro sottintesi merceologici/ontologici (il meta-qualcosa di cui tanto abbiamo parlato). Ultraviolence ha superato - anche brillantemente, intendiamoci - tale dicotomia e annesso problema d'inquadramento. Le ambiguità, come per magia, svaniscono al cospetto di una simil-maturità senza dubbio eccentrica e capace di produrre ancora ottima musica (quando il team si impegna), ma nel complesso ottundente, troppo familiare: prima ci si confrontava col nemico, ora ci si gode il calduccio depravato del proprio habitat (finchè la Interscope acconsente). Album discreto, nonostante tutto. Ma proseguendo di questo passo, di Lana Del Rey finirà col restare solo Lizzy Grant. Se ciò sia un bene o un male, lascio a voi giudicarlo.
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