R Recensione

10/10

Joni Mitchell

Hejira

Nel cromosoma genetico di tanti protagonisti della “popular music” anni Sessanta-Settanta – generazione di artisti che ha costruito la propria fortuna e si è nobilitata storicamente avversando i soffocanti stereotipi della cultura borghese di massa – è riscontrabile come pochi altri l’anelito costante, il richiamo persistente ad una qualsivoglia forma di “fuga”: la quale – sia essa pura (ma mai banale) smania esperienziale, sia altrove parto di un dissidio tutto interiore se non svincolo da un legame soffocante o esaurito – si cristallizza spesso e volentieri nella metafora, ad uso e consumo del “chanteur” colto come di quello più istintivo, del viaggio.

Considerazione, questa, che perde molta della sua intrinseca ovvietà sociologica una volta che si prendono le distanze dai profeti ‘hippie’ delle stagioni dell’amore – e dalla deriva “lisergica” che del viaggio la loro cultura necessariamente propone – per gettare un ponte e uno sguardo ravvicinato su quegli eroi disincantati del decennio successivo, perennemente in preda ai tremendi dubbi esistenziali del post-Woodstock, nostalgici e al contempo assetati di ricostruzione, in continuo bilico tra essere per sé ed essere (ancora) per gli altri.

È solo adesso, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, che la musica popolare, quale che sia la sua ascendenza (folk, rock, psichedelica), stretta tra le morse di una nuova necessità storica, vede i suoi germogli più prolifici, i suoi frutti più prelibati e maturi scaturire dal ripiegamento dell’artista su se stesso, dalla profonda, lucida, spesso spietata autoanalisi che anche il musicista si ritrova a dover fronteggiare.

Ne sa certo qualcosa un’artista come Joni Mitchell che, portavoce malgré elle della passata rivoluzione (sua la firma di “Woodstock”), già nel 1971 aveva tappato la bocca ai cantori della nostalgia del ’68 e imposto una brusca virata verso i nuovi lidi dell’intimismo con quel monumento alla “privatizzazione” dell’esperienza che è e rimane “Blue”. Un’autobiografia confessionale, un denudamento dei sentimenti e delle angosce, un dispiegarsi su più piani del sé che sarebbe diventato il marchio di riconoscimento di tutta (o quasi) la produzione a venire della signora canadese, dall’afflato lirico del successivo “For The Roses” (1972) – incredibile ponte, peraltro, tra la produzione folk degli esordi e il sound jazz-rock delle uscite successive – alle acrobazie pop del fortunatissimo “Court And Spark” (1974), passando per la splendida (e tuttora poco valutata) parentesi interlocutoria di “The Hissing Of Summer Lawns” (1975) per approdare alla meravigliosa tematizzazione del viaggio come fuga da se stessi di “Hejira” (1976), pagina compiuta e inimitabile di un percorso più unico che raro nel panorama musicale dei suoi anni.

I’m travelling in some vehicle / I’m sitting in some café / A defector from the petty wars / That shell shock love away”: così recitano i primi versi della title-track (il cui titolo fa riferimento alla fuga di Maometto da La Mecca nel 622 d.C.), a immediata testimonianza che il ‘topic’ sta tutto lì, nel viaggio come abbandono inevitabile e necessariamente doloroso di un privato dai riverberi intensi ma non più sostenibili. Fondo tematico che ritorna con perfetta circolarità, declinato nelle sue varie sfaccettature, in tutte le nove tracce di questo ‘masterpiece’ musicale col quale Joni abbandona per sempre il folk degli esordi per dare vita ad un ibrido tra folk, rock e jazz che nella sua originalità ha fatto molto più scuola di quello che si può ancora oggi pensare.

Non è un caso che a nobilitare questa coraggiosa operazione di svecchiamento del rock Joni si preoccuperà di far accorrere alcuni dei nuovi mostri della fusion destinata a spopolare nella seconda metà del decennio, bastino solo gli altisonanti nomi di Jaco Pastorius (in fase di esplosione con i Weather Report di Joe Zawinul), che suona il basso in quattro dei nove brani, e Larry Carlton (session man di lusso, tra l’altro con gli Steely Dan), che si alterna con Joni alla slide.

Il più fulgido esempio di questo inusitato connubio tra folk e jazz potrebbe essere proprio “Coyote”, singolo celebre più per la sua proposizione al concerto finale della Band (“The Last Waltz”) che per i suoi modesti esiti commerciali (appena un numero 98 nella Billboard chart), a cui è affidata l’apertura del disco. Le due chitarre di Joni e Carlton si rincorrono col basso di Pastorius nel seguire una linea melodica libera e continua che fa pensare ad una cavalcata (e richiama il “road movie” suggerito dalla copertina dell’album) senza termine, in cui Joni racconta lo scontro-incontro, durante la sua fuga, con un figlio della strada, sufficientemente rozzo e sensuale da colpirla nei sensi, ma abbastanza incompatibile con la nostra viaggiatrice da permetterle un non rimpianto abbandono.

Più complessa e lirica la trama di “Amelia”, uno dei vertici dell’intero disco, in cui Joni – accompagnata esclusivamente dalla sua chitarra, che suggella una delle armonie più originali e commoventi del decennio, e dal contrappunto slide di Carlton – paragona la sua fuga al desiderio di volare che ha mosso la prima aviatrice, Amelia Eckart, regalandoci stralci di poesia e autoanalisi da brividi (“Maybe I’ve never really loved / I guess that is the truth / I’ve spent my whole life in clouds / At icy altitudes”).

Furry Sings The Blues” è un’altra tappa del cammino, nobilitata peraltro dall’armonica dell’amico Neil Young, in cui incanto e sottile ironia si uniscono nel descrivere l’incontro con un vecchio musicista di strada, dedito ormai solo al fumo e all’alcool.

La breve parentesi di “Strange Boy”, sui turbamenti a cui la nostra va incontro nello “svezzare” un ragazzo giovane, ‘strano’ in quanto attaccato solo al passato, nostalgico della scuola e ancora sotto il controllo della famiglia, introduce alla maestosa e impareggiabile title-track, in cui la confessione nella sua lucidità si fa ancora più disarmante che in “Amelia” e neanche la metafora riesce più a soccorrere la protagonista di questo conflitto interiore. Musicalmente, si torna ad una struttura libera, fluida, jazzistica per quanto dipanata solo su un’onda di chitarra che arpeggia all’infinito, mentre il basso non si limita più a contrappuntare ma diventa il sottile nerbo emotivo di una linea melodica eterea, impalpabile quanto dolente. È la rassegnazione di chi sa che “nessuno mi può mostrare ogni cosa che esiste, tutti andiamo verso e veniamo da dimensioni sconosciute, ma come posso fare mio questo punto di vista, se sono sempre legata a qualcuno?”: privato ed esistenziale si fondono in uno dei prodotti più alti della canzone d’autore degli ultimi trent’anni, vertice assoluto dell’esplorazione della propria intimità che la signora canadese ci ha proposto fino ad ora. E non da meno sono gli otto minuti di pura psicanalisi in “Song For Sharon”, spietato e autoironico compendio delle possibili soluzioni ad una mancata realizzazione sentimentale (qui suggellata nell’immagine dell’abito da sposa) che nei suoi risvolti più crudi non invidia niente alla lucidità di “Amelia” ed “Hejira”.

La sezione ritmica ( se così si può definire un’energica linea di basso-chitarra proto-funk, senza ombra di batteria) si fa per la prima volta possente in “Black Crow”, ancora agganciata alla metafora del volo del corvo verso il basso per “cogliere qualcosa di nuovo”, salvo poi tornare nella solitaria altitudine da cui si è esposto. “Blue Motel Room” è invece una pausa, anche musicale (chitarra jazzy decisamente più nei canoni della tradizione), una ricerca di un’oasi di serenità e pace dalla guerra emotiva – Joni paragona sé e il proprio amante ad USA ed URSS – in cui la voce imposta un cantato classico non nuovo al repertorio della canadese (“Twisted” in “Court And Spark”, gran parte di “The Hissing Of Summer Lawns”). Si chiude con la splendida melodia di “Refuge Of The Roads”, che ci riporta al viaggio e al suo essere unica risposta a tante domande senza risposte; anche qui svetta lo straordinario basso di Pastorius, con virtuosismi sottili ma talmente intensi da poter essere noverati tra i migliori della sua intera carriera, mentre Joni ci racconta dell’incontro con un “amico di spirito” che le consiglia di avere più “cuore, umorismo e umiltà” e la riconsegna alle strade della sua ricerca interiore.

Ancora oggi, a distanza di trent’anni suonati, sconosciuto dalle masse ebbre di rock dai facili costumi, venerato come pochi altri dai fan addetti ai lavori, potenzialmente inaccessibile ma tremendamente necessario per chiunque decida di entrare tra le sue pieghe, “Hejira” può vantarsi del nobile e raro fregio di capolavoro seminascosto di fusione acustica dei generi e di adamantina esplorazione di un sé saturo di compromessi e proiettato verso la liberazione da tutti gli stereotipi esistenziali. Tanto basta a renderne grazie.

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Voto degli utenti: 9,2/10 in media su 21 voti.
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Moon 9/10
don dom 10/10
REBBY 9/10
DonJunio 10/10
Richardo 9,5/10
GiuliaG 8,5/10
Me3cury 8,5/10

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DonJunio (ha votato 10 questo disco) alle 20:12 del 28 gennaio 2007 ha scritto:

joni

Recensione veramente coi fiocchi, sentita ed esauriente, che rispecchia con maestria il contesto e il contenuto dell'opera. Complimenti.

PierPaolo (ha votato 9 questo disco) alle 16:54 del 5 febbraio 2007 ha scritto:

La migliore

Grande Joni. "Amelia" è una cosa da brividi. Bravissimo

Moon (ha votato 9 questo disco) alle 1:05 del 17 novembre 2007 ha scritto:

è joni ......e basta!

hai detto tutto tu....qui Joni raffina gli arrangiamenti e la voce, sensualizza il tutto. song for sharon andrebbe studiata nelle scuole.

dalvans (ha votato 9 questo disco) alle 15:16 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Bellissimo

Ottimo disco

Utente non più registrato alle 14:13 del 3 marzo 2012 ha scritto:

Ho sempre ammirato JM, soprattutto dopo la sua svolta jazz-rock (complice anche la conoscenza con Charles Mingus), e il suo live "Shadows And Light" mi accompagna fin dai tempi del liceo.

NathanAdler77 (ha votato 10 questo disco) alle 17:03 del 7 giugno 2012 ha scritto:

"Hejira" è lo zenith folk-psych-jazz di Joni, regina delle cantautrici nei secoli...Basterebbero "Amelia" e "Black Crow" a nobilitare una carriera. Pastorius semplicemente immenso.