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R Recensione

7,5/10

Don Karate

Don Karate

Dare una definizione non è solamente l’atto creativo per eccellenza, ma è anche una manifestazione di estrema, persino incosciente responsabilità: costringe a prendere una posizione, ma implicitamente porta anche a ridefinire sé stessi in relazione a qualcosa o a qualcun altro. Non una strategia comunicativa vincente, in tempi in cui l’identità dell’essere viene perlopiù esplorata tramite una serie di negativi accostati ricorsivamente tra loro. Sia chiaro: io per primo non mi sento di biasimare questo punto di vista. Ad esempio, se qualcuno mi mettesse con le spalle al muro e mi ingiungesse di fornire un’etichetta che possa adeguatamente ricomprendere tutte le sfumature di “Don Karate”, piomberei in genuina difficoltà. Dovrei forse dire che si tratta di un disco che respira all’intersezione tra jazz hop, chill out, downtempo, soul da cocktail post-apocalittico e poi questo, ma anche quello e forse chissà quanti altri ingredienti, tanto che varrebbe arrendersi da subito e dichiararlo inclassificabile – il che ci riporta, fatalmente, al punto di partenza. Oppure, per psicologia inversa, uno potrebbe azzardarsi a chiamarlo genericamente jazz, aggiungendo – con una pennellata di malizia tra le righe – che, tanto, “jazz” nel 2020 non vuol dire niente, non molto più di “parola”, e che quindi ognuno si può sentire legittimato a vederci ciò che più gli aggrada.

Dal canto suo Stefano Tamborrino (Simone Graziano Trio, Hobby Horse, Ghost Horse, recentissimamente nella superband The Auanders), che di Don Karate è creatore e diretta emanazione, preferisce presentarsi come batterista autodidatta che per una serie di circostanze si è trovato a lavorare prevalentemente in ambito jazzistico. Non fa una piega. Di più: gli otto brani che compongono la tracklist dell’omonimo sophomore di questo singolare power trio (completato, in maniera inusuale, dal vibrafono d’eccezione di Pasquale Mirra e dal basso di Francesco Ponticelli), due anni dopo il buon esordio con “I Dance To The Silence”, potevano essere solamente figli degli schemi logici di chi, agli schemi logici, per attitudine o formazione non è portato a pensare. Fulgida esemplificazione in favore di una simile argomentazione la offre, per citarne una, il viaggio interstellare di “Planeta”, sette minuti e rotti in cui gli incroci post-fusion di Mirra e Ponticelli – un fitto dialogo a braccetto tra il levigato romanticismo di un O’Donel Levy e strati di dissonanze seriali – sono scanditi da un flusso ritmico in cui la semantica tropicalia è determinata dalle altezze della sintassi -hop: un ventaglio di incroci ed influenze che, nel raffinato white soul di “La Classe”, assume le fattezze di un dimenticato classico lounge e negli sbratti fonici di “Tea For D.K.” (ouverture free jazz, passo ritmico zoppo, onomatopee sorde, violento avviluppo hard boiled) un contrappeso quasi situazionista. Di una precisione chirurgica nella costruzione delle melodie (memorabile la naturalezza con cui Mirra se ne esce con la sbilenca head hutchersoniana di “YSC”, a partire da un insieme di fraseggi iniziali che si sarebbero detti di semplice warm up), “Don Karate” sfodera non meno solide invenzioni ritmiche (il groove ballabile dell’exotica clubbing di “Ice Age”, una vera e propria anti-canzone introdotta da due minuti e mezzo di sinusoidali evoluzioni stallinghiane), nonché un buon gusto nel riarrangiare brani già editi (“African Snow” rigira la “Five Civilized Tribes” dei Ghost Horse in una danza della pioggia ambient-lounge).

Gusto, fantasia, imprevedibilità, tutto senza svendere un’oncia di integrità artistica: i Don Karate sono il nome perfetto da giocarsi per le prossime tenzoni trasversali dei consigli per gli acquisti. D’altronde, a casa mia, sapete come si definisce “Don Karate”? Indovinato: un ottimo disco.

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