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R Recensione

5,5/10

John Butler Trio

Flesh & Blood

Era necessario, prima o poi, arrivare a discettare – in maniera meno circostanziata, oltre la citazione ed il richiamo – di John Butler, figura ormai totemica per l’ancora largamente ignoto microuniverso della musica australiana e, assieme a Xavier Rudd, punto di riferimento sociale per certe, storiche istanze “impegnate” della canzone d’autore (l’ambientalismo, il pacifismo, i diritti delle minoranze). L’Occidente europeo ha fatto la conoscenza della sopraffina tecnica chitarristica e del profondissimo sentimento artistico di Butler grazie ad una celebre versione live di “Ocean”, lunga strumentale contenuta in “John Butler” (1998) e, specialmente in quella versione ridotta, spaccato in fingerpicking di potenza emotiva sovrumana. Sin dalla sua ascesa agli albori, quel brano ha, de facto, esteso alla totalità critica solo un particolare punto di vista sull’omonimo trio (al 2014 completato da Grant Gerarthy, a batteria e percussioni, e Byron Luiters, al basso): la formazione dei sogni senza parole, degli strumenti parlanti, delle suite iconiche. L’altra verità segnala l’attività poco appariscente di un buon gruppo bluegrass, spesso e volentieri incline – quando i timbri vocali ritmati e pulsanti del leader lo concedono – all’introspezione e al raccoglimento della ballata: un contrasto che, se all’inizio può apparire inspiegabile, viene in verità motivato dal solido entroterra professionale dei musicisti all’opera.

Già si è potuto intuire, con ogni probabilità, il difetto madre del John Butler Trio: il livellamento tipico di chi molto fa, metà conclude, poco scalfisce. “Flesh & Blood”, loro sesto full length, non può non confermare quanto detto: e dicotomica, peraltro, è già la doppietta iniziale, con la serafica “Spring To Come” (un poco logora anche la metafora della primavera come cambiamento, interiore in primis) accoccolata in un’ansa di gradevole americana arpeggiata e l’immediatamente successiva “Livin’ In The City” scandita nel suo marcato incedere su pentatonica (seppur ancora lontano dai fraseggi classici e dai call&response di “Devil Woman”). Introdotti gli attori principali, ci si limita in un secondo momento ad operare su singoli dettagli, scelte secondarie rispetto all’insieme predefinito. A differenza del precedente “April Uprising”, pure senza menzioni di nota, “Flesh & Blood” sceglie di devolvere studio supplementare a mid e lenti, avvolgendoli in un asettico ed ignifugo contesto ambientale (a nulla serve la svisata in bottleneck sul grigiore dei pad di “You’re Free”), adattando riverberi ed imperfezioni a brani classicamente harperiani (“Wings Are Wide”), dilatando gli scheletri di romantiche ninna nanne (“Bullet Girl”) o scadendo nella melensa narrazione esistenziale a passo d’uomo (“Young And Wild”). Si tratta di un eccesso di quiete statica che – causa mancanza di un adeguato contrappeso e della pronunciata durata di tali frangenti – non viene smaltito, appesantendo fatalmente l’ascolto.

Va a finire che le spiccate aperture pop del singolo “Only One” (efficace ruffianata da surfista consumato che sa dove va battuto il ferro) e lo strascicato reggae di “Blame It On Me” siano deputati a risollevare le sorti di un platter assai mediocre. Poco male: quattro quinti di potenziali ascoltatori avrebbero comunque continuato a portarsi nel cuore la sola “Ocean”.

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