Adebisi Shank
This Is The Third Album Of A Band Called Adebisi Shank
This is the end of a band called Adebisi Shank, annunciavano lo scorso settembre i nostri tre irlandesi preferiti, con linevitabile mestizia codificata nellevento e, allo stesso tempo, con la scanzonata goliardia che da sempre li ha contraddistinti, raro esempio di math for maths sake a rifuggire il soppalco di sovrastrutture teoriche di cui si amano circondare i musicisti più tecnici e preparati della loro generazione. Finisce così comera cominciata: nel rumore, nel sudore, nel ghigno di un cosmico culturista cui lo sforzo fisico ha fatto detonare il lume della ragione. Didascalie for dummies, matissiane, grotteschi sberleffi a più non posso, con lombra di una costante metamorfosi a catturare il proscenio: dallep caustico allesordio bruciante al sophomore diretto-ma-non-troppo, fino al terzo ed ultimo capitolo (This Is The Third Album Of A Band Called Adebisi Shank, ovviamente, come già preconizzato anni addietro) di tetsuiana, assoluta, scanzonata compenetrazione tra i martelli elettronici e le fughe strumentali, tra lipnosi della ripetizione e la tentazione dellarrangiamento, tra la satura devastazione noise e limago party oriented. È finita la storia, ma è un peccato che i titoli di coda siano stati scritti con linchiostro meno ammaliante di sempre.
Si accavallano, moltiplicandosi, spingendo per affacciarsi alla mente, le impressioni. Che, tanto per gradire, gli Adebisi Shank avessero molto da dire, ma si siano limitati a farlo (bene) nei due lavori precedenti. Che questo terzo, la cui gestazione non è forse un caso sia durata quattro anni, sia stato scritto con difficoltà, per arrotondare il numero, senza grande convinzione. Che lo scioglimento del gruppo, una manciata di mesi dopo, si debba interpretare come volontà irreversibile di mettere punto a capo ad un sentiero dal quale, per partenogenesi, se ne stanno già biforcando altri (All Tvvins, Speed Of Snakes). Tra le mille illazioni, un dato certo: per la prima e unica volta, in una carriera tutto sommato breve, ma feconda di soddisfazioni, il calcolo ha prevalso sullistinto, la pianificazione sullispirazione. Ne è nato, quindi, un disco artificioso nel linguaggio e negli intenti, ingessato nella prestazione, poco brillante nel risultato.
Scendendo nel dettaglio, certo, chi si sente tanto più gratificato quanto più esplicitamente lo si prende in giro accoglierà con sincera gioia la delirante Mazel Tov, lesilarante singolo art pop che nessuno si aspetterebbe (chitarre plastiche ed arpeggiate, vocine distorte, un backing scenery di fiati da far gola ai classici degli anni 80, percussioni sigillate ermeticamente): Turnaround, poi, lunico ottovolante sulla faccia della terra che si permette di benedire la copula tra Vampire Weekend e Lightning Bolt, in rotazione attorno a pizzicate afro e boati elettronici da trivio; ad essere larghi di manica, anche le tastiere giocattolo e gli ovattati clangori da Fisher Price di Thundertruth. La maggioranza dei brani, però, oltre a non sorprendere non scalfisce, oltre a non coinvolgere non piace. Trashissima Sensation, nintendo-core di seconda mano giocato su unossessionante cassa dritta: agghiaccianti le striature bombastiche, da arena rock, di Big Unit (pare siano tornati in vita gli Ok Go di Of The Blue Colour Of The Sky); Voodoo Vision diluisce lelevato coefficiente tecnico in unaltisonante sbrodolata synth rock molto più vicina ai Muse che ai Battles (un problema che affligge e tormenta anche le progressioni di World In Harmony, banalizzate da chiassose ritmiche drumnbass e appiattite su un melodismo muffito).
Al giro di boa conclusivo, probabilmente, il gioco è sfuggito di mano. Lanciamo una controproposta: lavventura degli Adebisi Shank non necessiterebbe forse di un correttivo dellultimo momento, un fourth album per fare la pace col proprio passato?
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