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R Recensione

7/10

Jaga Jazzist

Starfire

Anche se le statistiche tendono ad affermare il contrario, esistono persone che hanno apprezzato (“amato” è spararla un po’ troppo grossa) “Lulu”, l’ultimo lascito discografico del compianto Lou Reed, in thrilling tandem coi Metallica. Ci sembra di sentirli ripetere, come in trance: tutto, ma non “Metal Machine Music”. Che Lou Reed scrivesse un disco di paisley underground, di black metal o di abstract hip hop era indifferente, purché la maledizione del rumore bianco non si perpetuasse, ancora una volta. Per noi umili ammiratori dei Jaga Jazzist l’obiettivo è incomparabilmente minore: tutto, ma non “One-Armed Bandit”, il suo imponente ritorno alla classicità cattedratica, l’irrigidimento della libertà espressiva in statiche pose da primi della classe, la sua testarda cerebralità. La provocazione del leader dei Velvet Underground precedette uno dei dischi della propria rinascita come individuo e musicista, “Coney Island Baby” (RCA, 1975, 35:15). In un certo senso, invece, “Starfire” (Ninja Tune, 49:52) è stato il disco, fra quelli incisi dalla congrega di Lars Horntveth, accolto con le maggiori controversie da critici ed appassionati. I biasimi hanno rilevato una certa sovraesposizione verso un’elettronica deteriore da clubber e un formato, quello della sinfonia, fin troppo opulento: plausi sono giunti, as always, per la perizia strumentale e le felici progressioni della title track.

C’è da preoccuparsi? Mettiamola così: chi aspirasse a smontare il lavoro del leader dei magnifici otto di Tønsberg secondo i principi sopra abbozzati dovrebbe, contestualmente, rivedere ampie fette della loro discografia. Il multiforme percorso dei Jaga Jazzist mai è stato avulso da uno specifico background sintetico (si parlavano linguaggi altamente contaminati già nell’esordio “Jævla Jazzist Grete Stitz”, per non citare il capolavoro “What We Must” e, perché no, lo stesso “One-Armed Bandit” e l’incolore EP di remix, di poco successivo, “Bananfluer Overalt”) né, tantomeno, ha rifuggito le grandeur formalistiche. Non occorre citare il recente live con la Britten Sinfonia per offrire un esempio di opulenza esteriore: la stessa carriera solista di Horntveth (“Pooka” del 2004, “Kaleidoscopic” di quattro anni successivo) ha sviscerato il concetto di brano-suite; The National Bank (quintetto con, tra gli altri, il fenomenale fratello Martin alla batteria) fu un progetto originariamente commissionato dal festival di Vestfoldspillene; tutta la scrittura dei Jaga Jazzist, “A Livingroom Hushin primis, è pervasa da una straordinaria epicità che mira sempre a farsi scoppio emozionale e a disfarsi in mille suggestioni diverse.

Parte della scaletta del dvd, uscito su Ninja Tune nel 2013, è occupata da una scoppiettante versione di “Prungen”. Il brano è presente anche su “Starfire”, chiudendolo come meglio non si potrebbe: i delicati arpeggi acustici, sui quali si poggia l’ipnotica e spiraliforme melodia dei fiati (rarefazione ambient a contatto con il cosmopolitismo acid jazz), sono spazzati via da un’ondata di dubstep imperlato di sudore acido, una vigorosa entrata in tackle che scopre le zanne e mostra i muscoli. Da un’altra semplice successione di accordi, una torch song come se ne scrivono a milioni nella fiorente Norvegia, “Shinkansen” evolve in direzione orchestrale: all’apice della consunzione romantica, però, le trombe si defilano senza preavviso, lasciando un vuoto che viene colmato da una serpentina drum’n’bass tutta breakdown, pad elettronici e – solo in un secondo momento – ottoni. Capitolo title track: conviene prestare attenzione alle lodi. Le curatissime armonie prog per sei corde (parimenti acustiche ed elettriche, riverberate e “al naturale”), cui il flauto di Line Horntveth si avvicina ed allontana a comando, si risolvono in una monta intergalattica per Moog e synth. Messa così, sembra il brano più materico di sempre: è, invece, solo estremamente denso, senza mai tradursi in vera e propria corporeità. Magie dei maestri.

Quanto ad essere tamarro, d’accordo, “Starfire” lo è, nella misura in cui ammettiamo che siano tamarri amalgami come quelli di “A Touch Of Evil”, dal disco precedente. Le chiassose tastierone di “Oban” sono, indubbiamente, eccessivamente appariscenti, specie se soppesate sul versante del loro (risibile) apporto armonico: la pompa da musical kitsch rischia, a più riprese, di screditare il brano. Ma vogliamo parlare di quella perlacea, delicatissima linea di sax custodita nel mezzo, una head nu jazz di rara bellezza? “Big City Music”, poi, è un autentico micro-musical dei contrasti (14:07), il canto del cigno della tradizione classica nei confronti dell’IDM, officiato da uno straordinario stomp di fiati (da 5:19 a 6:30) che si apre a ventaglio su una serie di incastri electro-prog.

Si paga, nel complesso, un po’ di staticità, specialmente nel passaggio dai movimenti più lunghi agli incisi di minor respiro. Date le premesse, in ogni caso, “Starfire” assume i crismi di un mezzo miracolo.

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