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R Recensione

7,5/10

Yakuza

Beyul

Hope your paradise where we will live forever, where we will live forever”, urla Bruce Lamont in “Lotus Array”, wanderer solitario di una cima inesplorata da Caspar Friedrich, risucchiato dai riflussi free jazz di un brano che parte in sordina, come i mantra psichedelici di “Of Seismic Consequence” e l’acustica pionieristica di splendidi viaggi metafisici sulla scorta di “Perception Management” (si va a ritroso, nel 2007, con uno spettacolare “Transmutations”): che parte, dicevamo, perché lo stream of consciousness questa volta non si ferma ad esplorare l’ignoto lisergico, lo spirituale trascendentale. I Neurosis plumbei ed imprescindibili di “A Sun That Never Sets” si materializzano, infatti, in un crescendo emotivo il cui coefficiente di profondità drammatica aumenta sensibilmente a crescere dei volumi delle chitarre e che divampa in un breve, catartico, intenso incendio metallico, tra sfasamenti ritmici e il disgregamento dei collanti melodici fusion che avevano permesso il dipanarsi stesso della canzone. Nell’assetto della credenza buddista, dalla quale sempre gli Yakuza hanno attinto, sono peraltro definite beyul delle pianure segrete, secondi paradisi terrestri, rifugi nascosti tra rocce e caverne e protetti da divinità ed elementi naturali, la cui ubicazione si disvelerà autonomamente quando il mondo diventerà un luogo troppo corrotto per poter perseguire serenamente una propria spiritualità (“This secret sacred land, beyond the mountains, beyond the rivers, beyond the valleys”, sta ora sussurrando Lamont). È questo, l’attimo? La terra osserva il suo collasso, e gli Yakuza con essa?

Ogni fibra di “Beyul” pare esprimere, con terrore di chi ascolta, il saluto estremo, il testamento morale di un quartetto che così tanto ha rivoluzionato l’ambiente musicale circostante e, paradossalmente, così poco ha ricevuto in cambio. Nulla di esplicito, nessun annuncio a lettere cubitali, sia chiaro. Ma la sensazione, fastidiosa, inquietante, rimane tale. Saranno certe scelte stilistiche, la ricercatezza delle tematiche trattate, la sorpresa di ritrovare un gruppo la cui elegante potenza omicida non è stata minimamente scalfita dal tempo e dalle vicissitudini. Fatto sta che il sesto disco dei chicagoani, il secondo per Profound Lore, si rimangia le introspezioni e i rallentamenti del predecessore per ripartire, di slancio, con un’urgenza espressiva ed una rabbia chirurgica quali non si sentivano da anni. L’equilibrio zen si è spezzato di nuovo, forse definitivamente. Ne scaturisce il platter più conciso e, per certi versi, meglio calibrato nella storia del gruppo. Un manifesto vivente e programmatico di un manipolo di sperimentatori che, mossisi dalle sponde di un balbettante metalcore cosmopolita, hanno ben presto bruciato le tappe e sono arrivati ad abbracciare una babele linguistica unica al mondo, pragmatica avantgarde di complessità e stratificazione jazz, fiondanti lacerazioni death, strutture ritmiche tribali e disposizioni matematiche.

La caratura dei risultati artistici raggiunti dagli Yakuza è sempre stata così peculiare da divenire, gradualmente, inevitabilmente, apprezzata quotidianità. “Oil And Water” gioca, così, il ruolo dell’inaspettata. Una tempesta inarrestabile. Math-core selvaggio, violento di una ferinità istintiva à la “Samsara”, frenato ed sospinto a piacimento in un’isteria di cambi di tempo e riff (eccezionale il chitarrista Matt McClelland), dilaniato dal sax di Lamont (registrato, per la prima volta, in contemporanea alle proprie linee strumentali) e dalla doppia cassa. “The Last Day” è l’essenziale continuazione, una “Chicago Typewriter” degli anni ’10, apocalittica colonna sonora del post-cataclisma, canto da far risuonare nel riverbero delle corde vocali di chi contemplerà indenne la distruzione, letteralmente polverizzato da maligni scarichi grind di fulminea, devastante accelerazione istantanea. Quando poi la stratificazione viene totalmente sacrificata all’impatto – è il caso di “Species”, un minuto e mezzo di rumoroso caos apocrifo Converge –, o rilanciata su traiettorie novantiane non così esaltanti (i neofiti si ascoltino, ed imparino ad apprezzare, le didascaliche giustapposizioni chitarristiche di “Mouth Of The Lion”), le giunture dimostrano di saper tenere, ancora una volta, alla grande.

Infine, i pilastri. Che in “Of Seismic Consequence” si chiamavano “Be That As It May” e “Farewell To The Flesh” e rappresentavano allora, ne parlammo al momento opportuno, uno dei sentieri più tortuosi e metamorfici intrapresi dai “nuovi” Yakuza. “Nuovi”, gli Yakuza, a loro modo – lo capiamo, una volta di più, grazie a “Beyul” – lo sono sempre stati: nel cercare continue variazioni allo schema di base, nell’approfondire questo o quell’aspetto preponderante, nell’allargare le maglie delle proprie influenze, nel saper tornare sui propri passi evitando lo scimmiottamento. Così, “Fire Temple And Beyond” condensa, in dieci minuti, la mistica del quartetto, tra invocazioni profane, arpeggi di chitarra intarsiati da nuovi ricami di violoncello (splendida invenzione, ottima aggiunta), universali salmodie noise ed una carezza sempre pronta a stringersi in pugno. Come lo zoppicante, belligerante Medio Oriente di “Man Is Machine”, una fanfara ossessiva che esplode ad intervalli regolari, strozzata dai bending e sobillata da fratture sassofonistiche, e che alla fine trova la chiusura del proprio cerchio in una melodia di profonda semplicità ultraterrena, gli Yakuza del 2012 sono ancora, per il mondo, dei Giano bifronte, metallari rosi dalla velleità o musicisti di vasta competenza ma di scarsa propensione alla sintesi.

Che infine, nondimeno, è arrivata. Letale. Crepitante. Indimenticabile. I beyul, per quanto ci riguarda, possono aspettare tempi peggiori.

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andy capp 5,5/10

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