R Recensione

8/10

My Brightest Diamond

Bring Me the Workhorse

Shara Worden è un personaggio segnato da una forte carica ambivalente. Un catalizzatore individuale di scroscianti e composite energie collettive. Un’apparizione che proietta la sua ombra anche in una giornata senza sole. Danzatrice solitaria che volteggia tra la folla per riaffermare il principio della propria inestinguibile unicità.

Lo si intuisce dal monicker: splendore tagliente che fende l’oscurità del subconscio illuminando latebre di reviviscenza. Spicca fra le liriche: immaginari dialoghi con se stessa, monologhi pronunciati da identità segrete, pagine impolverate strappate dal diario della psiche. Salta all’occhio nei brevi cenni biografici: Padma Newsome e Sufjan Stevens, quartetto d’archi e programmatore di strumenti elettronici, musica da camera e one girl band orgogliosamente indie.

Ma se l’“illinoiser” suo ex mentore escogita sempre nuove partiture barocco/orchestrali per il suo pop a là “Sgt. Pepper” suonato da bande municipali itineranti, la pulzella del Michigan, voce educata sui dischi di Whitney Houston, Mariah Carey e Kate Bush, preferisce impiantare cupe e magniloquenti gemme operistiche su uno scarno fusto di alt rock cantautorale, un florilegio di pop teatrale, arie da romanza tardo-ottocentesca, palpitante dark wave ed elettro-folk casalingo. Bring me the workhorse (Asthmatic Kitty,2006) è un mosaico di vignette alla Gilbert & Sullivan disegnate su fondali tenebrosi tipo Ann Radcliffe, “Il mago di Oz” in versione kammerspiele.

Something of an end e Golden Star sono crude armonie per archi e chitarra elettrica che l’io narrante di Shara, strumento principe dell’inedita orchestra-rock, conduce verso monumentali eruzioni sinfoniche alternando gorgheggianti estensioni da “Lady Macbeth” a balbettii onomatopeici e frustate vocali degne della Sinead di The Lion and the Cobra. Gone away è una parlour ballad nostalgica, il pianto liberatorio di una Dorothy adulta che ha tristemente smarrito le sue scarpette d’argento; cullata fra le soffici corde di un pianoforte e un misurato refrain d’archi, Shara divora la ribalta con l’acrobatico romanticismo del suo struggente contralto.

Dragonfly: ondivaga ritmica soul jazz che riecheggia il talento della sua interprete in cristallini haiku vocali, una farfalla imprigionata simboleggia un doloroso trauma infantile, una bambina e una giovane donna si riflettono senza riconoscersi attraverso la superficie a specchio del tempo. Freak Out sembra proprio un pezzo di P.J. Harvey, il migliore, eventualmente, dai tempi di Is this desire, cabaret-blues dilaniato, a momenti, per il resto post punk centrifugo e disarcionante, con Shara che mette da parte le lezioni di bel canto per abbracciare le ansiose rimostranze uterine del suo nume tutelare. In We were sparkling, celtico ricamo lo-fi per carillon e chitarra/cetra, le scissioni della sua personalità finalmente si ricompongono: la bambina/soprano, la sognatrice solitaria, l’adolescente trasandata e la studentessa di college in psicanalisi, tenendosi per mano, nottetempo si recano ad ammirare “(…)l’albero d’argento/vicino al fiume”, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, lo schiudersi del portale magico della natura.

Disappear, ammaliante operina downtempo puntellata da tamburi di latta, arpeggi di pianola Casio e melismi imbronciati, fa pensare ai Portishead sperduti in un bosco di fate. The robin’s jar, cantico elettro-folk con ritornello orchestrale, s’immerge nelle plaghe della memoria replicando in tono minore l’incantevole melanconia di We were sparkling. Magic Rabbit, funerea romanza dark wave lanciata verso un climax concertistico indie-pomp, è un mezzo capolavoro d’esecuzione. The good and the bad guy e Workhorse, raffinato pop da camera fra Jerome Kern, Scott Walker e Antony & Johnson, melò in sordina che esaltano le doti di Shara (crooning in stile Broadway, la prima, scat melodico nella seconda) e chiudono in modo più che dignitoso, un esordio a tratti forse un po’ ripetitivo, ma sicuramente notevole.

V Voti

Voto degli utenti: 8,2/10 in media su 5 voti.
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target 8/10
giank 8/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 15:35 del 19 settembre 2007 ha scritto:

Applausi (ad entrambi!)

Bellissima recensione: sai scrivere e si vede benissimo. Il disco è molto buono, un po' strano in alcuni frangenti, non adatto per tutti i tipi di timpani, ma merita. Davvero.

target (ha votato 8 questo disco) alle 17:38 del 19 settembre 2007 ha scritto:

Golden star

Lo sto divorando proprio in questi giorni. "Gone away" è Beth Gibbons con un'orchestra prosciugata dal dolore alle spalle. Disco che spicca, e l'hai descritto davvero bene.