Tom Waits
Blue Valentine
Mi manda lettere d'amore tristi.
Il Tom Waits migliore è quello che si inventa una forma di blues aerodinamica, strumentalmente sbilenca e genialmente prismica, incatramando le proprie corde vocali sino a negare ogni forma di musicalità. Siamo d'accordo.
Il Tom versione crooner romantico, con tanto di piano bar, jazz eccentrico e lenti blues della disperazione, non è però molto da meno. "I Hope I don't fall in love with you", "Martha" e compagnia cantante sono fulgidi esempi del suo melodismo brillante, appena disturbato dalle stranianti trovate che diverranno pane quotidiano negli anni a venire.
Ecco, il vertice di tutto il Tom Waits buono e umano è "Blue Valentine". Non è il suo lavoro più bello, senza dubbio. Ma è il più toccante. E' come un affare personale, si butta di ginocchia in un mondo popolato da anime perse, amori impossibili, pensieri in frantumi, notti insonni. Ancora una volta il genio californiano dà voce a chi non ne ha mai avuta, racconta la storia dei tantissimi nessuno del nostro mondo.
Il giorno di San Valentino non è mai stato così nero, eppure non si crogiola nel dolore: prova a liberarsene, si ostina a ricercare una via là dove non esiste. La fine di una storia, o peggio una storia solo immaginaria (perché la persona è nel fiore degli anni eppure, per un motivo o per l'altro, è destinata a rimanere irrangiungibile) possono fare più male di qualsiasi altra cosa al mondo.
In fondo a questi struggimenti inconsolabili, se scaviamo bene, ci troviamo un piccolo compiacimento: è la malinconia, la gioia di essere tristi, la siderale bellezza di ciò che non potrà mai avvenire. Si dice che uno sguardo sia il più terribile dei tradimenti. Soprattutto se non può andare oltre. Sembra nulla, e invece può strapparti le budella, chi l'ha attraversato ne è consapevole.
Tom Waits imprigiona quello sguardo rivolto verso l'impossibile dentro campate melodiche che piangono lacrime amare. Le sue piccole tragedie personali respirano come opere universali, come romanzi eterni.
Il pianoforte è il protagonista principale di queste suite, i generi di riferimento sono ancora a loro modo definiti: ritmo e blues, jazz da night club fumoso, poco altro. Per Tom Waits è più che sufficiente per creare le sue terribili storie d'amore senza storia.
"Blue Valentines" e "Christmas Card from a Hooker in Minneapolis" sono due gorghi senza fine, due serenate distrutte dalla malinconia, due blues turbinosi dominati dai vocalizzi teneri di Waits. Radiografie di storie derelitte, di persone lontane e di solitudini che nei momenti più dolci (San Valentino) diventano insopportabili. Un amore finito, lettere che marcano l'anniversario di una persona che non esiste più. E poi il resoconto di una puttana, che forse ha scoperto l'esistenza di qualcosa di diverso, e lo racconta al vecchio amante Charlie.
Altrove si intravede un Tom vampiresco e gutturale, che ricama racconti inquietanti dentro scenari blues distorti, quasi deturpati ("A Sweet little bullet"). Non mancano momenti in cui il suono sembra evaporare e tutto si gioca sulla teatralità orrorifica di Waits ("Red Shoes").
La celebre "Romeo is bleeding" è un sontuoso r'n'b, con tanto di splendido solo del sassofono. Tom grugnisce e declama dentro figure ritmiche più aggressive e marziali, demolisce la resistenza fisica dell'ascoltatore senza pudore.
"Somewhere", tratta da West Side Story, spiazza perché si immerge in uno scenario elegante e sontuoso, con tanto di archi solenni e di fiati sgargianti. Ma la voce di Tom degenera ulteriormente, ora aggressiva ora più affine al timbro relativamente candido delle splendide serenate di "The Heart of Saturday Night" o "Closing Time".
Lo struggente pianoforte di "Kentucky Avenue" accompagna un talking blues che evoca paesaggi interiori devastati. Il ritornello, che si gonfia arioso, è forse il vertice emotivo del lavoro, il che equivale a dire uno dei vertici di Waits tutto.
Verranno momenti musicalmente più alti, dicevo. Ma non sempre riempiranno il cuore come queste fragilissime lettere d'amore.
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