Pink Floyd
Animals
Incastonato fra i ben conosciuti e diversissimi “Wish You Were Here” (1975) e “The Wall” (1979), quest’album assume un ruolo cruciale nell’evoluzione dei Pink Floyd da gruppo coeso e pluri-ispirato ad espressione pressoché univoca e radicale delle ossessioni e delle voglie di Roger Waters.
Il bassista, già dal 1971 (album “Meddle”) unico liricista della formazione, prende qui l’esclusiva anche della voce solista, compone da solo tre pezzi su quattro e progetta pure l’inquietante copertina della confezione. I contributi dei due solisti David Gilmour e Rick Wright sono ancora importanti in fase di arrangiamento ed esecuzione, l’album per questo suona sufficientemente musicale e progressive, ma l’universo sonoro sognante e “spaziale”, rotondo e felpato, che tanto aveva contribuito a rendere i precedenti dischi floydiani così accattivanti pur nella tragicità degli argomenti trattati, va in sostanziale dissolvenza, picconato dalla rabbiosa voce del leader, dalle Orwelliane similitudini descritte nei suoi testi, dai claustrofobici effetti speciali inseriti per sostenerli.
Il disgusto di Roger Waters per come va il mondo (e siamo nei settanta, decade certo molto migliore di questa) ha qualcosa di profetico: la sua divisione dell’umanità in tre specie animali (cani, maiali e pecore) si addice in tal maniera al degrado politico, morale, sociale, mediatico, sanitario, architettonico, territoriale, meteorologico, linguistico attualmente in furioso e omertoso incremento, dal costringermi (purtroppo) a dargli ragione su tutta la linea e considerarlo anche per questo fra le menti più intelligenti, lucide ed immaginifiche del rock.
Il disco è come noto costituito da tre lunghe composizioni, intitolate e descriventi le tre sunnominate “specie” umane, più una quarta a fare da involucro al tutto, costituendo il prologo e l’epilogo dell’opera, nonché l’unico spiraglio di luce fra tanto pessimismo.
“Dogs” descrive la specie umana oggi facilmente riassumibile con il termine “berlusconiana”: rampante, aggressiva, avida, impaziente, stressata, incontentabile, bugiardissima, sempre di corsa e pronta a tutto pur di svettare, primeggiare, farsi notare, elevare la propria posizione, arraffare, vincere.
I “Pigs”, i maiali, sono invece oggi sintetizzabili come “prodiani” (o “veltroniani” che fa lo stesso): ipocriti, doppiogiochisti, vili, benpensanti, finti progressivi, finti laici, freddi, statici, preoccupati della propria ombra, razzisti ma con vergogna, ugualmente avidi e bugiardi ma solo con meno coraggio e più ipocrisia.
Pecore (“Sheep”) sono tutti gli altri, ignavi e sottomessi, vili e remissivi, in genere solo attenti a subire il meno possibile, a far si che il peggio non li coinvolga direttamente, ma che ogni tanto si ribellano ai cani (che sono un nemico più evidente e definito dei maiali), li attaccano, li sconfiggono. Purtroppo invano, perché vi sono sempre i maiali, apparentemente meno pericolosi ma ugualmente tirannici e disonesti e prevaricanti.
Questa allegra descrizione delle cose piomba quindi nell’album della più famosa formazione rock al mondo in quegli anni, e stavolta le musiche fanno fatica a celare (agli ascoltatori occasionali e/o superficiali) la plumbea rabbia che le ha ispirate. “Dogs” è la canzone che se la cava meglio, non a caso essendo a firma di David Gilmour per quanto riguarda le musiche. Resta un momento magico del repertorio floydiano l’assolvenza iniziale della chitarra dodici corde, col progressivo arretramento del riverbero che la fa magicamente “avvicinare” alle orecchie dell’ascoltatore, per poi essere raggiunta dal cantato. Un altro passaggio emozionante è costituito a metà brano dall’autenticamente lugubre latrato di cani, ottenuto facendo passare l’organo di Wright dentro un vocoder e poi un ampli Leslie. In cuffia fa realmente accapponare la pelle.
Tastierista e chitarrista si fanno valere anche in altri passaggi dell’album, segnalatamente in Sheep, introdotta da un bel piano elettrico e finalizzata da una bella schitarrata del buon Dave, ma insomma la sensazione di diminuito coinvolgimento dei tre compagni di Waters nella produzione del gruppo è in, seppur latente, evidenza.
“Pigs On The Wing” è infine la canzone che serve a Waters per dare la sua personale soluzione alla (dis)umana scelleratezza a lui (ed a noi) intorno: trovarsi un “buco dove sotterrare l’osso”, cioè qualcuno che ti ama e a cui tenere, qualcosa da fare e da avere, un posto dove stare, relativamente lontano da pecore, maiali e dagli altri cani. Si, perché Waters alla fine, dovendo coerentemente mettersi in una delle tre specie, sceglie correttamente quella dei cani, avendo energia, ambizione ed egocentrismo più che sufficienti (anzi, enormi…) per prendere le distanze dalle altre due specie animali.
È che… si era appena innamorato di una nuova compagna, dopo l’ancor recente divorzio dalla prima moglie, la fedifraga Judy, e le cose gli parevano allora personalmente sopportabili, anche se relativamente oscene. “Pigs On The Wing” lo vede quindi, da solo e con la chitarra acustica, intonare una canzone d’amore, e di rifugio, e di sollievo, ad attutire tutta la miseria umana descritta senza pietà per tutti gli altri nove decimi dell’album.
Come non possedere, ed ascoltare ogni tanto, queste musiche e queste liriche?
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