R Recensione

8/10

Ghost

In Stormy Nights

Formazione nipponica giunta con questo In Stormy Nights al settimo album, i Ghost sono saliti alla ribalta nel corso del decennio precedente per un fruttuoso mix di folk, progressive e psichedelia. Il gruppo guidato da Masaki Batoh è un ensemble di ottimi polistrumentisti che utilizzano gli strumenti svariati (oltre a quelli tradizionali si figurano, tra gli altri anche pianoforte, theremin, contrabbasso solo per accennarne alcuni). Dopo un silenzio di oltre quattro anni (ultimo album Hypnotic Underworld del 2003) tornano ora con un disco decisamente ambizioso che tenta di portare avanti un percorso musicale molto interessante che sarebbe opportuno riscoprire nella sua interezza.

Si inizia con Motherly Bustler che si adagia su una chitarra acustica dal vago sapore orientale, sullo sfondo di un ambiente etereo, volendo classificare si può parlare di folk applicato al nuovo millennio permeato di psichedelica squisitamente antica. Ma quello che sembrava un delizioso antipasto dell’ennesimo recupero delle sonorità psichedeliche-progressive di quegli splendidi anni ‘70 (Pink Floyd, King Crimson, Genesis, Yes …) già operato più volte durante la loro eclettica carriera è in realtà un’isola sperduta in un oceano immenso: Hemicyclic Anthelion, ossia ventotto minuti di pura sperimentazione avanguardistica in cui vengono inseriti in maniera spericolata suoni elettronici, accenni di orientalismo, divagazioni kraut rock alla Neu! e Faust, volontà complessive di recuperare la dimensione space rock di Popol Vuh e Tangerine Dream, atmosfere plastificate assimilabili all’ambient di Brian Eno (Music for Airports ma non solo) e spunti di free jazz. Siete riusciti a farvi un’idea? Vagamente? Ecco, allora immaginate che tutto questo spietato impasto sonoro è poi permeato della follia rumoristica che si impossessò di Lou Reed nell’esperimento maestoso e cacofonico di Metal Music Machine. Quello che ne viene fuori è qualcosa di trascendentale che meriterebbe svariati ascolti per coglierne tutte le sfumature e per capirlo pienamente. L’impressione però è che il gruppo pecchi un tantino di presunzione stilistica in questo caso e l’operazione, pur rappresentando un passaggio imponente del progetto, non sia perfettamente riuscita e appesantisca un po’ l’ascolto.

Quello che stupisce maggiormente è però che dopo questa mezz’ora spettrale, il gruppo, come se niente fosse, ritorni al formato-canzone tradizionale (ma non certo convenzionale). E onestamente sembra questo il campo in cui i Ghost rendono di più: con l’apocalittica Water Door Yellow Gate, in cui cori spettrali e una possente base ritmica accompagnano una voce che ricorda nettamente il Nick Cave più cupo di From Here To Eternity, il tutto mentre sullo sfondo si staglia la stupenda cavalcata della chitarra acida e lisergica di Michio Kurihara.

Gareki No Toshi è anch’essa maestosa: feedback distorti, assoli sotterranei, voci filtrate e lontane anni luce che sembrano quasi provenire da una trasmissione radio di un’altra epoca, il tutto sovrastato dalle imponenti percussioni di Junzo Tateiwa. Sembra che la band ricerchi il caos primordiale della storia dell’umanità, o forse invece ne annunci profeticamente l’anarchia conclusiva con rimandi stilistici al kraut-rock degli Amon Duul II di Phallus Dei.

Caledonia è un geniale intreccio tra una cornamusa dal profumo scozzese, una percussione bombata e un cantato post punk con la voce ancora distante e distorta.

Il finale è affidato alla perla Grisaille, dove l’ordinato caos sonoro precedente lascia lo spazio a una vellutata ballata sorprendente per raffinatezza. Stavolta Masaki Batoh si maschera da menestrello malinconico, riportando alla memoria l’ultimo Johnny Cash.

È sorprendente come i Ghost riescano a passare da un inno di battaglia come Caledonia alla dolcezza sconfortante di Grisaille con la massima facilità e naturalezza. Ed è proprio questa poliedricità stilistica il tratto distintivo di tutto l’album e la cosa che affascina maggiormente.

In Stormy Nights rasenta spesso il traguardo del capolavoro e se non lo raggiunge mai interamente è solo per quell’eccesso di ambizione cui si accennava, che va sotto il nome di Hemicyclic Anthelion, peccato mortale di vanità in un disco che per il resto non delude e che porta a chiedersi quanto bisognerà aspettare per il prossimo.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 6 voti.
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REBBY 6/10

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