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R Recensione

5/10

Kylesa

Ultraviolet

L'effetto Baroness – il riuscire a scrivere dischi metal senza, peraltro, suonarne una singola nota: per approfondimenti si veda la recensione di “Yellow And Green” – miete un'altra vittima nel sottobosco sludge. A cadere romanticamente affascinati dall'idea di un'osmosi cosmica, da una visione heavy contaminata a tal punto da non riuscire più a distinguere il soluto dal solvente, da una babele di stili tesi a formare un sol corpo (e non una sovrapposizione culturale e identitaria, come in buona parte del crossover di due decadi orsono), a penetrare in profondità nella tematica, dicevamo, sono oggi i Kylesa, nome che ben poco dirà a chi non può annoverarsi nella cerchia di fedelissimi ed appassionati al genere. Un'essenziale cronistoria – tracciata per chi non sa, e non intende perderci dietro del tempo – parla di un quartetto nato agli albori del Nuovo Millennio, da sempre affiancato a Mastodon e High On Fire per contingenza temporale e densità sonora, tra i primi a sfrondare le asperità gratuite del fangoso rifferama in virtù di un sentito vagheggiare psichedelico. “Ultraviolet”, secondo full length per Season Of Mist, è il loro sesto disco in studio, a tre anni di distanza dal precedente “Spiral Shadow”.

Occorrerebbe operare di comparatistica tra le uscite dei Kylesa, per riuscire ad osservare “Ultraviolet” da una prospettiva più completa, e captare quindi le varie linee evolutive che hanno portato l'approccio irruento della band di Savannah, Georgia a mitigarsi nel pout pourri d'oggidì. È bene sottolineare che il die hard redneck potrebbe inizialmente – e anche in seguito – sentirsi tradito, insultato, raggirato. Non stiamo parlando delle furono aperture post metal degli Isis, non dell'ortodossia funerea degli EyeHateGod né, tanto meno, del cangiante polimorfismo dei già citati Mastodon. “Exhale” scuote alla base non la struttura, ma l'anima dello sludge, utilizzandone riff e traccianti in una compressione (urlata, slabbrata, sgraziata) inequivocabilmente rock. “Long Gone” ha lo sguardo allucinato dello space e le chitarre del post-core. “Drifting” sembra trascinare il paisley underground giù per una scarpata doom. “Grounded” scavalca l'ultimo steccato e piomba, pesantemente, nel regno della pentatonica, in un classico brano hard-stoner – con interludio hardcore – che assomiglia moltissimo a certi Dead Weather (con la voce di Shara Worden al posto di quella di Alison Mosshart). E così via.

Mai sono stati puristi, i Kylesa. Eppure mai si è sentito, a nome loro, qualcosa di più impiastricciato, indefinito, sfumato. Se “Ultraviolet” è stato concepito per rispondere alla regola di cui ad inizio recensione, la prova è riuscita. A differenza dei Baroness, che pure band eccelsa non sono, “questi” Kylesa sembrano tuttavia degli ambiziosi cuginetti (cugini di cugini? Possibile?) incapaci di andare oltre il carosello di varietà. Il risultato è che i riff non graffiano come dovrebbero, gli intrecci psichedelici sono elementari, le canzoni più brevi perdono subitamente la loro spinta (emblematica “What Does It Take”, il cui passo marziale si confonde in un marasma di effetti senza capo né coda) e le novità, se di novità si può davvero parlare, non lasciano granché traccia. La voce di Laura Pleasant rende “Steady Breakdown” un mantra goth rock ammaliante a tratti, insoluto altrove – davvero brutto ed inadeguato il ritornello. In “Quicksand”, è opprimente la sensazione di avere di fronte dei Torche femminili e steroidizzati. La deviazione più esplicita dal sentiero di base, ovvero i toni dark wave riverberati e semplificati di “Low Tide”, è quella che si fa preferire: non un caso, d'altro canto, che il territorio sia lo stesso di “Psalms Alive”.

Per cambiare tutto e non smarrire un briciolo di integrità serve essere ben più che degli onesti comprimari. Un impegno, sinteticamente riferendo, fuori dalla portata dei Kylesa.

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