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R Recensione

7/10

Torche

Admission

Difficile crederlo, anche a causa di una discografia che, in un mare di medietà, presenta solo qualche picco isolato. Eppure, perlomeno nell’ultimo decennio, mi è difficile pensare ad una band al di fuori dei Torche che sia riuscita con lo stesso successo a forgiare una forma, un suono proprio e personalissimo, riconoscibile al primo impatto: uno spazio astratto e camaleontico, indescrivibile e incomunicabile, dove il cemento si vaporizza, il rumore di fondo muta in un pattern armonico, dove convivono distorsioni valvolari, mentalismi novantiani e melodie senza tempo. Perfezionando e rifinendo il messaggio ultimo nel corso degli anni e delle uscite, alcune esaltanti (l’esordio omonimo), altre del tutto fallimentari (“Songs For Singles”, “Harmonicraft”), il quartetto di Miami celebra infine il primo quindicinale di attività con un full length che non solo conferma l’ottima tenuta fisica esibita nel precedente “Restarter” (2015), ma si pone in un certo senso come disco-summa, metamorfica celebrazione di un passato sempre proteso con un piede verso il futuro. È così che in “Admission” il banco salta, il volto detona, erutta il magma cerebrale, dalle profondità viscerali del sottosuolo verso le infinità celesti.

Chi voglia farsi un’idea sommaria del disco prenda i tre brani offerti come sua preview e li riproduca, a volume altissimo, uno dietro l’altro. “Slide” tira fuori dal cilindro un marmoreo riff sabbathiano, che si autoriproduce a intervalli irregolari prima di defluire in un impetuoso ritornello power rock. “Times Missing” è un ipnotizzante mid le cui uniche variazioni sono salti contigui di tono: una rapsodia slacker suonata con le chitarre dei Jawbox. La title track, infine: un muro di suono impenetrabile tra i cui interstizi baluginano luminose scintille di melodismo shoegaze. L’impressione che con ogni probabilità ne ricaveranno i neofiti è quella di tre band diverse, legate in profondità da un inesplicabile marcatore comune. Impressione sbagliata, ma allo stesso tempo sostanzialmente corretta: perché, nel loro rimanere sempre fedeli alla linea (anche quando la linea, specialmente in questo caso, non c’è), i Torche suonano come molte altre cose assieme. Da qui il coraggio di inaugurare “Admission” con la velocissima mitragliata da ko tecnico di “From Here”, che in “Submission” sembra recuperare la Miami da bere del vecchio “Meanderthal” e che in “What Was” (l’omaggio più diretto e inaspettato all’esordio del 2005) diventa come un ipercinetico compendio sludge dei Queens Of The Stone Age, soffocato con brutalità nella pura distorsione.

Admission” è, nel complesso, un disco estremamente fisico, ai limiti di un autismo autodistruttivo (la cantilena di “Infierno” viene letteralmente stritolata dalla potenza degli amplificatori, con effetto annichilente) e, a tratti, leggermente fuori fuoco nella sua volontà di potenza (“Extremes Of Consciousness”). L’unico momento in cui l’atto contemplativo si sostituisce completamente a quello sabotativo coincide, forse, col grande finale, una “Changes Come” (vero!) che riesce a concretizzare quanto la vecchia “Out Again”, quasi dieci anni fa, era riuscita solo ad abbozzare: un trasognato inno indie rock che gira intorno al proprio asse, senza concludersi mai, sfumando estaticamente in un feedback solitario. Un commiato temporaneo: una promessa, credibile, di rivedersi a breve.

Chissà che possa davvero essere così.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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