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R Recensione

6,5/10

Gone Is Gone

Echolocation

L’estroso eclettismo del supergruppo Gone Is Gone, già estrinsecatosi nell’umbratile stoner-wave dell’interessante extended play d’esordio, raggiunge nuovi ed importanti vertici nei brani del più organico “Echolocation”, disco inaspettatamente corposo a dispetto di una composizione discontinua, districatasi tra i mille impegni studio e live riconducibili alle band d’appartenenza di ciascun membro (i Mastodon di Troy Sanders, autori del discreto “Emperor Of Sand” e dell’appendice breve “Cold Dark Place”: il ritorno sulle scene dei Queens Of The Stone Age di Troy Van Leeuwen, con “Villains”, e degli At The Drive-In di Tony Hajjar, con “In·ter a·li·a”). La cifra di tale eterogeneità si misura, probabilmente, non su un autografo, ma sulla coraggiosa reinterpretazione di un classico dei Portishead, esattamente quello che non ti aspetti da una congrega di rockstar impenitenti: “Roads” si trasforma in una casa degli spettri post punk, un raccolto peana in crescendo scalfito da chitarre cigolanti e iperfiltrate. Come prevedibile, la vibrante intensità dell’originale rimane piuttosto lontana: ma la sfida, giunta inaspettata, può comunque dirsi ampiamente vinta.

Corsi, ricorsi ed assonanze. Per essere un opus alt rock degli anni ’10, “Echolocation” suona piuttosto atipico (così come atipico, d’altro canto, suonava l’esordio dei Giraffe Tongue Orchestra, quel “Broken Lines” di cui leggerete in contemporanea). Anzitutto perché – a differenza dell’omonimo EP dell’anno scorso – i Gone Is Gone sfoderano i loro numeri migliori al rallentare del ritmo e all’infittirsi delle textures melodiche. Una sorpresa nella sorpresa, dunque, sentire le tonalità scorbutiche e sgraziate di Sanders – non esattamente quel che si dice un cantante tecnicamente dotato, al netto dei progressi degli ultimi anni – adattarsi senza apparente fatica alle pennellate folkish di “Resolve” (con l’interferenza di roboanti pad elettronici sul fondo), ai picchi emozionali di una “Sentient” che richiama i Deftones dei tempi d’oro (con la fluttuante grana doom delle chitarre di Van Leeuwen contrappuntata nientemeno che dalla Budapest Film Orchestra), ai rintocchi metallici di un lento dark wave di gran classe (“Dublin”).

Si spinge ancora sull’acceleratore, beninteso: nelle contratture vagamente tooliane di “Pawns”, nelle stoccate post-grunge di “Gift” contaminate da curiose progressioni distoniche, nella concitata concisione meccanica che agita “Fast Awakening” (il rovesciamento metallico del saturo minimalismo marziale di “Slow Awakening”), nelle stratificazioni da soundtrack che caratterizzano la title track (eccessiva, va detto) e nel gioiellino “Resurge” (i Torche assediati da folate di bending alieni e ribaltati in un ritornello quasi new romantic). Un attento sguardo d’insieme, tuttavia, rivela da subito che non è questo il fine, né il cuore di un disco intrappolato mani e piedi in una totalizzante utopia novantiana che – se non fosse per la qualità dei brani – potrebbe risultare ridicola, se non addirittura letale.

Vecchio, nuovo crossover per le generazioni contemporanee? Esaltazione dei grigi in un mondo di bianchi e di neri? Tutto può essere. Quel che è certo è che, nonostante una certa disomogeneità di fondo, la curiosità è stata definitivamente risvegliata.

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