Gone Is Gone
Echolocation
Lestroso eclettismo del supergruppo Gone Is Gone, già estrinsecatosi nellumbratile stoner-wave dellinteressante extended play desordio, raggiunge nuovi ed importanti vertici nei brani del più organico Echolocation, disco inaspettatamente corposo a dispetto di una composizione discontinua, districatasi tra i mille impegni studio e live riconducibili alle band dappartenenza di ciascun membro (i Mastodon di Troy Sanders, autori del discreto Emperor Of Sand e dellappendice breve Cold Dark Place: il ritorno sulle scene dei Queens Of The Stone Age di Troy Van Leeuwen, con Villains, e degli At The Drive-In di Tony Hajjar, con In·ter a·li·a). La cifra di tale eterogeneità si misura, probabilmente, non su un autografo, ma sulla coraggiosa reinterpretazione di un classico dei Portishead, esattamente quello che non ti aspetti da una congrega di rockstar impenitenti: Roads si trasforma in una casa degli spettri post punk, un raccolto peana in crescendo scalfito da chitarre cigolanti e iperfiltrate. Come prevedibile, la vibrante intensità delloriginale rimane piuttosto lontana: ma la sfida, giunta inaspettata, può comunque dirsi ampiamente vinta.
Corsi, ricorsi ed assonanze. Per essere un opus alt rock degli anni 10, Echolocation suona piuttosto atipico (così come atipico, daltro canto, suonava lesordio dei Giraffe Tongue Orchestra, quel Broken Lines di cui leggerete in contemporanea). Anzitutto perché a differenza dellomonimo EP dellanno scorso i Gone Is Gone sfoderano i loro numeri migliori al rallentare del ritmo e allinfittirsi delle textures melodiche. Una sorpresa nella sorpresa, dunque, sentire le tonalità scorbutiche e sgraziate di Sanders non esattamente quel che si dice un cantante tecnicamente dotato, al netto dei progressi degli ultimi anni adattarsi senza apparente fatica alle pennellate folkish di Resolve (con linterferenza di roboanti pad elettronici sul fondo), ai picchi emozionali di una Sentient che richiama i Deftones dei tempi doro (con la fluttuante grana doom delle chitarre di Van Leeuwen contrappuntata nientemeno che dalla Budapest Film Orchestra), ai rintocchi metallici di un lento dark wave di gran classe (Dublin).
Si spinge ancora sullacceleratore, beninteso: nelle contratture vagamente tooliane di Pawns, nelle stoccate post-grunge di Gift contaminate da curiose progressioni distoniche, nella concitata concisione meccanica che agita Fast Awakening (il rovesciamento metallico del saturo minimalismo marziale di Slow Awakening), nelle stratificazioni da soundtrack che caratterizzano la title track (eccessiva, va detto) e nel gioiellino Resurge (i Torche assediati da folate di bending alieni e ribaltati in un ritornello quasi new romantic). Un attento sguardo dinsieme, tuttavia, rivela da subito che non è questo il fine, né il cuore di un disco intrappolato mani e piedi in una totalizzante utopia novantiana che se non fosse per la qualità dei brani potrebbe risultare ridicola, se non addirittura letale.
Vecchio, nuovo crossover per le generazioni contemporanee? Esaltazione dei grigi in un mondo di bianchi e di neri? Tutto può essere. Quel che è certo è che, nonostante una certa disomogeneità di fondo, la curiosità è stata definitivamente risvegliata.
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