Brandon Coleman
Resistance
Nellincandescente mese di session non stop che ha plasmato la struttura dellormai classico contemporaneo The Epic, la ciurma capitanata dal gran timoniere Kamasi Washington ha composto musica almeno per altri otto progetti paralleli (!), la maggior parte dei quali non ancora venuti alla luce. Resistance, seconda prova solista dellestroso tastierista Brandon Coleman a tre anni di distanza dallautoprodotto Self Taught e battesimo di fuoco per la Brainfeeder di Flying Lotus, è uno di questi. Chi avesse preso parte alle prime date italiane del tour promozionale di The Epic, dovrebbe ricordarsi perlomeno di Giant Feelings, brano regolarmente proposto nelle setlist dellepoca e qui felicemente scelto come singolo trainante: un toccante space-gospel orchestrale a due voci (quella femminile è della solita, eccellente Patrice Quinn) irreggimentato da un sanguigno fraseggio di sax leggermente fuori sincrono col beat dellospite Techdizzle.
Il pezzo è eccellente ma, come per il Thundercat di Them Changes, nel dato contesto appare a dir poco sprecato. Coleman è il classico istrione che, al confronto, farebbe sembrare Bruner una personcina sobria e Kamaal Williams il timido del quartiere. Così anche la musica di Resistance, la cui filosofia è solare sin dal principio: suoni gommosi, assoli esagerati, Rayban inforcati anche nelle tenebre più totali, piedino in perenne oscillazione, vocoder onnipresente, sfacciataggine al limite della cafoneria. Quando il gargantuesco strato tastieristico di Live For Today piano elettrico, orchestra sintetica e sintetizzatore ad un tempo sfocia in una vigorosa cassa in quarti, parrebbe di assistere ad un reboot black degli Electric Light Orchestra di Discovery: disco metronomica, filler funk, pirotecniche frequenze basse. Non solo la pompa non si sgonfia nel prosieguo ma, anzi, monta in un crescendo di kitsch retromane: il ritornello corale di All Around The World, la sfrontata EDM colorata fusion di Addiction (Sheera Ehrig si presta come svenevole lolita), lrnb cibernetico e costellato di fiati di Sexy (qualcosa dellultimissima Janelle Monáe qui dentro), le oniriche sovrastrutture lounge della vintage Sundae, i malinconici Daft Punk old style di Love (con profluvio di bass drops) Una lista infinita di episodi iperprodotti, iperarrangiati, artefatti e tutti uguali, da cui volendo si distaccano solo la divertente bonus track giapponese (il carosello disco-funk di Dance With Me), il breve spiritual notturno della title track (con, allopera, anche larpa di Arrietta Woods) e le squillanti fanfare sintetiche fatte sfilare a ritmo di marcia nel post-chorus di A Letter To My Buggers.
È, in fondo, sempre il solito aspetto negativo del paradigma culturale postmoderno dominante: lansia di rivalutazione storica, per emendare obiettive miopie prospettiche, conduce di fatto alleccesso opposto, includendo nello spettro critico tutto e il contrario di tutto, anche quello che era stato fatto scadere per motivazioni nobili. Se i meccanismi sociali hanno ancora un senso, Resistance è purtroppo destinato ad avere vita breve.
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