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R Recensione

6,5/10

Battles

Juice B Crypts

Tutti, pare, conoscono la freddura del momento: andando avanti con questo ritmo, nel 2030 i Battles saranno costretti a demandare ad un’intelligenza artificiale il lavoro di composizione e messa sul mercato dei loro nuovi dischi. Per chi non si ricordasse come si snoda la storia: erano in quattro e con loro quattrocento riflessi, in quell’iperdenso cubo di specchi in cui la robotica cantilena di “Atlas” annunciava al mondo la venuta di uno dei dischi più radicalmente eccitanti e rivoluzionari del Nuovo Millennio (“Mirrored”); tre subito dopo, all’indomani dell’arrivederci di Tyondai Braxton, mimetizzati tra gli ospiti all’ombra del gigantesco marshmellow art pop di “Gloss Drop”; e ancora tre, ma questa volta senza trucchi, lungo la strada del ritorno verso un approccio fisico a geometrie composite di patterns and differences (“La Di Da Di”). L’inaspettata defezione di Dave Konopka, ufficialmente per ragioni personali (la tranquillità del nido coniugale ostentata davanti ai buoi delle tournee mondiali, pare), mette i newyorchesi di fronte ad un bivio: silenziare per sempre la ragione sociale (scelta di comodo) oppure sfidare ogni limitazione tecnica e logistica del suonare in due partiture per almeno il doppio dei musicisti (scelta in linea coi curricula dei protagonisti).

A rimanere, dunque, diciassette anni dopo la nascita ufficiale della ragione sociale, solo la testa (Ian Williams) e i muscoli (John Stanier): reduci di un’operazione più grande di loro, veterani di una guerra combattuta in solitaria. Tra l’orgoglio ferito di chi rifiuta di cedere le armi pur scontrandosi con difficoltà logistiche a tratti insormontabili e un desiderio di spingere ancora più in là i limiti della propria esplorazione, ecco arrivare come un fulmine a ciel sereno il quarto “Juice B Crypts”. Disco che Williams definisce icasticamente come incentrato su “chord progressions, resolutions, returning home” (in sostanza: tronchi di cono, loop station, cascate di sample), ma al contempo popolato da una quantità di ospiti esterni seconda solo, forse, a quella di “Gloss Drop”: un museo postmoderno a cielo aperto intenzionalmente svincolato da uno spazio e un tempo ben definiti (o, per meglio dire, compresso nello spazio e nel tempo artificiali in cui l’indice di Ian Anderson sfiora quelli degli Shabazz Palaces) dove, tuttavia, l’ambizione silente eppure chiarissima è quella di raggiungere una forma pop di perfezione superiore, una rinnovata accessibilità ottenuta tramite non sfrondamento ma arricchimento delle ambizioni intellettuali.

Complesso, a tratti molto complesso formulare un’opinione lineare e non contraddittoria su quanto succede in “Juice B Crypts”, un cantiere in cui i frenetici lavori in corso fanno intuire solo a tratti la direzione verso cui i Battles intendono tendere. Come consuetudine, cominciamo dagli aspetti positivi e, nello specifico, da uno dei brani migliori su cui Williams e Stanier abbiano mai lavorato, se non nelle loro intere carriere, sicuramente nella produzione del progetto comune: “Fort Greene Park” è l’episodio più nostalgico ed identitario della scaletta (lo stacco di armonici naturali a 1:30, con il comporsi di una stortissima melodia dall’impatto emotivo devastante, è il tributo più bello e sincero al decennio cardine del math che i due potessero estrarre dal cilindro), ma è anche quello in cui – tra raccolti build up sintetici, fraseggi chitarristici come sequenze Morse in controtempo e riavvolgimenti spiraliformi – ci si avvicina maggiormente al singolo esemplare, ad un ideale di testamento artistico in tutta la sua evidente onestà. Sopraffino, poi, il gusto nella scelta di certi ospiti. Ripescato dal cono d’ombra di seminotorietà in cui ha deciso di trascorrere gli ultimi anni (fa il cuoco a domicilio, secondo i bene informati), Sal Principato dei mitici Liquid Liquid regala un’interpretazione vocale memorabile, permeata di groove fonosimbolico, nel ludico girotondo art-funky di “Titanium 2 Step”. Introdotta dalle dissonanti convoluzioni electro di “A Loop So Nice…”, Xenia Rubinos veleggia altissima su di un gospel laico trafitto da rintronanti synth pitchati oltremisura, gorgheggiando infine in un epilogo ridotto a minimale dialogo umano-sintetico (“They Played It Twice”). Per quanto non lontano dal compitino didascalico, infine, anche il featuring degli Shabazz Palaces (“IZM”) colpisce nel segno: la medietà del flow viene ben compensata dalla cura maniacale per i suoni (sempre ad un passo dal patchwork zappiano) e dal beat granitico di Stanier.

Non meno coerente, a livello argomentativo, è però l’altra faccia della medaglia. Prima che “Ambulance” deflagri in uno dei frattali chitarristici crimsoniani più travolgenti del repertorio di Williams (ecco il prog che si maschera da IDM!), non si può non pensare che quei risucchi e quelle traiettorie strumentali sembrino proprio usciti da “Tij”. Coloratissimi e a loro modo contagiosi i Mr. Bungle formato indie pop che, nel ritornello della prima metà di “The Last Supper On Shasta”, comprimono la frivola cantilena delle strofe in un dramma polifonico franto in un crescendo comico di teatralità: ma questa Tune-Yards non assomiglia forse al Mathias Aguayo di “Ice Cream”? E dove vuole andare a parare esattamente la seconda parte, frullatore impazzito che, tra una frenata e due accelerate, si spegne sulle note di un esercizio di piano del tutto simile all’attacco di “Ambulance”? Di mezzo c’è poi “Sugar Foot”, interessante più per le variazioni ritmiche inanellate senza fatica alcuna dal solito Stanier che per il bizzarro starpower chiamato dall’esterno (i misteriosi taiwanesi 落差草原 WWWW e il summenzionato Anderson): dopo lo scatto in avanti rushiano del refrain che dissolve le intriganti architetture dreamy dei primi minuti, anzi, il brano perde di consistenza e si trasforma in uno sterile gioco al rilancio. A farsi largo è il sospetto che, oltre a non essere poi moltissime, le idee di “questi” Battles soffrano a tratti di una mancanza di coesione formale, forse esacerbata da una sottile ansia da prestazione – comprensibile, dato l’assetto del tutto sui generis della band oggi – che spinge a chiudere i brani nel modo più spettacolare possibile, anche forzatamente (la title track).

Chi ha recentemente avuto la fortuna di godersi dal vivo il set proposto al Club To Club ha riferito di una band che, al vertiginoso aumentare del coefficiente di difficoltà, risponde con una forma smagliante: e che i Battles siano degli assoluti fuoriclasse, d’altro canto, lo avremmo saputo indipendentemente da “Juice B Crypts”. Il disco, semmai, suggerisce un’altra cosa: che per i Battles, dopo tanto lavoro di sottrazione umana, è giunto il momento di provare ad invertire la tendenza. 

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