Supergrass
Diamond Hoo Ha
Quasi tre lustri li separano ormai dalla stagione d'oro del brit pop e dagli esordi sferraglianti di I Should Coco: se gli Oasis erano i Beatles, i Blur gli XTC e i Suede David Bowie, loro erano lo strano ibrido pop punk tra Buzzcocks e Who, l'incontenibile esplosione di gioventù sonica britannica.
Naturale che, disco dopo disco, anno dopo anno, le tracce di giovanilsmo siano andate pian piano spegnendosi, col gruppo sempre più affannato nell'adattare ed evolvere la sua identità al trascorrere del tempo: l'ultima volta che se n'era sentito parlare era stato in occasione del pensoso e psichedelico Road to Rouen, che ci aveva consegnato dei Supergrass irriconoscibili e (a parere di chi scrive), finanche un po' pallosi.
Il fuzz monolitico che apre questo Diamond Hoo Ha Man, in tal senso, è più di una semplice dichiarazione d'intenti: la supererba è tornata a cresce nei cortili delle casette di Oxford e i nostri hanno intenzione di spingere sull'acceleratore come ai bei tempi andati.
Con qualche ruga e qualche capello bianco in più, sia chiaro: via quindi le filastrocche pop-punk (che a dirla tutta avevano già cominciato a diradarsi dal secondo In It For The Money), dentro un power pop di qualità che più che ai Buzzcocks può far pensare all'hard rock edulcorato in salsa pop dei Cheap Trick. E giù anche con le strizzatine d'occhio alle derive garage rock del decennio.
Così la title track pare quasi uno spurio inedito dei White Stripes (tra fuzz, falsetti strozzati e stomp di batteria meccanici), mentre Bad Blood è ben più di un sentito omaggio alle movenze e alle morbosità dell'Iguana di Lust for Life. Ed è bene dirlo, se si sorvola sulla questione originalità, si tratta di una doppia partenza con tutti i crismi.
Altrettanto derivativo, e altrettanto piacevole, il power pop in salsa glam di Rebel in You e di una 345 che per un secondo ci restituisce l'illusione dei Supergrass dei tempi d'oro.
La ballad Return of Inspiration, cambia ritmo ma non la sostanza e avvolti nelle sue morbide spire si ha più volte il miraggio di un Casablancas calato in un'improbabile accesso d'inglesità.
Il titolo del pezzo si rivela però, ahimè, poco profetico, perchè da lì in poi il livello medio delle composizioni è destinato a calare bruscamente, con una sequela di oscuri e fiacchi intrugli di humor british e AOR. Si salva nel mucchio la ballad indie pop dai tic dylaniani di Ghost Of A Friend.
Chiude una Butterfly svolazzante tra jingle jangle e pailettes alla Velvet Goldmine, a suggello di un disco che si guadagna sul campo un'abbondante sufficienza, nonostante i tanti se e i tanti ma, aldilà di qualche sporadica caduta di stile e un'eccessiva indulgenza nella derivatività, in virtù di un'ispirazione e di una verve interpretativa ancora sopra la media. Nonostante i primi acciacchi dovuti all'età comincino a farsi sentire qua e là. E sia sempre più difficile ritagliargli un ruolo ed uno spazio in questi affollatissimi scampoli di millennio.
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