The Small Faces
The Autumn Stone
Il periodo a cavallo fra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, vide il nascere di una nuova generazione che canalizzando la propria rabbia giovanile in un’ossessione per il look, le droghe sintetiche e la musica nera, attraversava le strade e l’etere della capitale inglese: i Mods. Mod stava per modernist, definizione dei fans del modern jazz che avevano elaborato uno stile comportamentale e d’abbigliamento proprio, elegante ma sobrio, curato maniacalmente fino al più piccolo dettaglio, prendendo,secondo un loro motto (“ adopt, adapt, improve”), quanto di meglio offriva il boom dei consumi dell’epoca e adattandolo al gusto personale.
Fu chiaro come lo stile Mod assunse connotati fortemente elitari, basati sulla capacità personale di reinventarsi costantemente al fine di raggiungere la perfezione estetica e comportamentale che permetteva di assurgere all’ambito ruolo di “face” e dettar legge in materia di stile, classe, eleganza all’interno del proprio circuito. E per questa selettiva “mod society”, la musica costituiva insieme all’apparire,un aspetto basilare ed un dovere; un mod ricercato nei costumi, doveva esserlo anche nelle scelte musicali, affinando l’orecchio intransigente attraverso sonorità nere ( R’n’B, soul, jazz, ska) ma il più possibile oscure, da riscoprire ed imporre ai propri simili nei clubs londinesi. Ma nel 1964, da cultura underground e di nicchia,i Mods divennero, grazie all’attenzione dei media, un fenomeno nazionale: negozi di abbigliamento in tema spuntarono come funghi nelle vie più cool di Londra e in tv si passavano programmi musicali appositi ( come il celebre “Ready,Steady,Go! “ ).
Di conseguenza, nacquero bands con cui i mods potevano identificarsi: gli Who e gli Small Faces;
ma mentre i primi si adeguarono e cavalcarono la nouvelle vague Mod reinterpretandosi come tali e seguendo un copione scritto per loro dal manager per esigenze commerciali, non così fu per gli Small Faces. Questi erano già mods ancora prima di diventarne i portavoce e ad aggregarli nel ’65 nell’East End di Londra fu proprio lo sconfinato credo nel modernismo che ognuno portava avanti individualmente. Giovanissimi,dai 17 ai 20 anni massimo, il quartetto esordì nel 1965 con il singolo “Wat’cha gonna do about it” esempio esauriente di suono mod (anticipando pur tuttavia il punk), in cui la graffiante voce terribilmente souly di Steve Marriot amalgamandosi con ruvidi riffs chitarristici presi in presto da Solomon Burke e un organo ossessivo che si ripeteva fino alla fine, trasudava tutto l’amore per la musica nera. Insieme all’accorato “All or nothing”, appassionato spiritual riveduto in chiave modernista, deflagrante in un crescendo di grinta e sentimento, riuscì a piazzarsi ai vertici delle classifiche e confermare gli Small Faces come nuovi idoli della mod generation.
Dagli inizi dunque, fino all’epilogo di fine anni ’70, tutta la loro produzione avrebbe omaggiato le radici nere da cui traevano ispirazione e linfa vitale: Otis Redding, Booker T, Sam &Dave, Eddie Floyd, James Brown o Muddy Waters, solo per citarne alcuni, indicarono e illuminarono la via dei quattro, imponendoli come uno dei gruppi più originali ed innovativi. Per 25 settimane, buona parte dei singoli tratti dall’omonimo Lp d’esordio “Small Faces”( Immediate Rec.-’66), rimasero ai posti più alti delle classifiche, mentre schiere di teen-agers seguivano la scia dei loro beniamini vestendo con parkas, giacche a 3 bottoni in puro italian style e pantaloni a sigaretta rigorosamente 2 cm sopra la caviglia. Il “maximum R’n’B” del loro sound contribuì ad aumentarne la popolarità e l’indice, testimonianza di un modo inedito di reinterpretare e speculare sul rhytm and blues dei primordi frammischiandolo e intersecandolo con la ruvdità del rock e del beat. “Shake” trascinante cover di Sam Cooke ( e ripreso da Otis Redding) o “Sha la la la lee”, riedizione luminosa e grintosa del soul di Mort Shuman ad esempio.
O ancora, il romanticismo nero ma meno levigato di “You really got an hold on me” ( cover di Robinson) che le vocals abrasive dell’istrionico Steve Marriott stravolgono e induriscono; e che dire del fumoso e cadenzato blues di “Plum Nellie”, largamente ispirato al glorioso “Green Onions” di Booker T.? Ma “ Small Faces” non era solo sonorità nera: proprio la duttilità e l’apertura ad altri stili lo rendevano di non immediata classificazione. “Yesterday, todays and tomorrow” o “That man”, erano rarefatti ed inattesi voli psichedelici prossimi al sound di “Revolver” dei Beatles (uscito nello stesso anno) o “My mind’s eye” dedica ulteriore all’espansione della coscienza scritto sulla melodia di un celebre inno e brillantemente combinato con lo spiritual. Col passare degli anni gli Small Faces ambivano però a qualcosa di più dell’essere un mero gruppo-immagine per ragazzini; consapevoli della loro crescita musicale e delle loro ancora inesplorate potenzialità che una più intensa attività in studio avrebbe sicuramente contribuito ad emergere e rafforzare, contrariamente al loro manager Don Arden, avvertirono la necessità di decurtare per un po’la parte live.
E con essa, anche i rapporti con Arden; a farne le veci subentrò l’ex-manager dei Rolling Stones Andrew “Loog” Oldham, che assecondò ed incentivo la volontà della band di evolversi verso uno stile più sofisticato e meno “da sfondamento”. Il secondo album”Ogden’s Nut Gone Flake”( 1968),piazzandosi, al di là di ogni previsone ,al numero 1, concretizzò la nuova direzione intrapresa; “Here comes the nice”, suadente, ironico, ma sempre con quelle eleganti virate irresistibilmente soul, o la raffinatissima ballata folk molto d’atmosfera “Autumn Stone”, vellutata come il flauto che la impregna. Di pari ricercatezza e originalità lo strumentale e accattivante blues di “Collibosher”sconfinante nell’accezione psichedelica “Hendrixiana”, o lo splendido soul ancora una volta traviato dalla psichedelia di “Afterglow of your love” che si snoda fra le escursioni nere del bravo Marriott, l’organo frenetico di Mc.Lagan e una corposa sezione ritmica ad opera dei collaudatissimi Lane (basso)e Jones( batteria). Non difettano nemmeno contaminazioni con la tradizione country-folk americana, nella personalissima cover “Red Balloon” ( “If i were a carpenter”) di Tim Hardin o l’eccentrico
country/ragtime a base di trombone, latrati di cane e vocals strascicate ed irriconoscibili di “Universal”.L’eterogeneità pareva ,dunque, esserne l’imperativo: un continuo dialogo fra stili ed influenze diverse, lontano dall’impulsività e dall’aggressività mod. “Lazy Sunday”, rubato alla musichall, in cui uno Steve Marriott popolaresco e sboccatamente cockney s’incontra in un pomeriggio di una pigra domenica londinese con un elegante elisir di jazz e glam alla Marc Bolan, oppure il surrealismo strampalato di “Ytchycoo Park”,anticipatore di certe melodie di “Tommy” degli Who…
Ulteriori singoli ed inediti nel corso del tempo furono stampati e raggiunsero buone posizioni nelle charts, prodotti da manager e labels diverse a nome Small Faces, fintanto che Steve Marriott non decise di dissociarsi agli inizi del ’69, formando con Peter Framtpon gli Humble Pie ; rimpiazzato da Rod Stewart che si era oltretutto trascinato dietro anche il chitarrista Ron Wood ( entrambi nel gruppo di Jeff Beck), la band mantenne la formazione originaria con l’asse Lane/ Mc.lagan/ Jones,abbreviando il nome in Faces e tirando avanti fino alla metà dei seventees.
Ma il tempo stava scadendo anche per i Faces: il bassista dipartì formando un gruppo acustico proprio, mentre Ron Wood si unì ai Rolling Stones. Parallelamente, Rod Stewart preferì intraprendere una carriera da solista mentre Kenney Jones sostituì in pianta stabile, il defunto Keith Moon negli Who. Intanto Ronnie Lane, nel pieno delle sue registrazioni, si ammalò di sclerosi multipla e furono proprio Pete Townshend, Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page a sostenerlo attraverso una lega da loro creata e concerti di beneficenza in suo favore finché, dopo 20 anni di sofferenze e ormai in sedia a rotelle non si spense. Steve Marriott stesso andò incontro ad una tragica fine nel 1991, perendo in un incendio divampato in casa. Le circostanze della vita e la funeree ombre della morte si erano allungate sugli Small Faces, calando il sipario del destino su un gruppo che era stato l’emblema di una generazione “cool” e stilosa che proprio alla definitiva disgregazione di ciò che della sua icona musicale rimaneva, conobbe nel ’79, un revival che dura tutt’oggi.
Gli Small Faces erano davvero stati i primissimi mods: mods per scelta,per attitudine, non per esigenze pubblicitarie, imponendo non solo un canone estetico alla scena londinese ma anche nuovi standard musicali di riferimento che non avevano precedenti, anticipando con i Kinks, gli Animals, gli Yarbyrds l’impeto e il furore del garage/punk e dell’hardrock.
Tweet